Discutere
Il recupero delle aree industriali dismesse

Se la localizzazione di numerose aree produttive è stata dettata dalla presenza della ferrovia, i loro progetti di recupero post dismissione assumono generalmente il dato infrastrutturale come vincolo e quasi mai come possibilità.

Se la strada di Las Vegas e la sua percezione cinetica dall’automobile è per Robert Venturi paradigma della modernità e fonte d’ispirazione architettonica, lo stesso non può dirsi per lo scarso appeal esercitato dalla ferrovia, rispetto alla quale in genere i progetti di trasformazione esibiscono il «retro» (a differenza della sempre desta attenzione, a livello linguistico come di dislocazione funzionale, nei confronti della strada).

All’analisi delle pratiche di trasformazione (che poi quelle attuate siano «buone», è tutto da verificare), occorre premettere due considerazioni. La prima riguarda il significato della locuzione «archeologia industriale», che non convince appieno perché può indurre a considerare le eredità industriali come reperti intangibili (e dunque da valorizzare attraverso la museificazione) e non come patrimoni che in parte necessitano di una risignificazione. La seconda è corollario della prima: gli edifici non possono ridursi (tranne per rari casi che debbono risultare davvero eccezionali per il loro carattere paradigmatico) a oggetti svuotati da venerare quasi feticisticamente e da imbalsamare quali «musei di se stessi». Se, appunto, tale atteggiamento può valere per (mi sia concessa la drastica quanto sommaria semplificazione) strutture tendenzialmente pre-novecentesche o protorazionaliste, come comportarsi con le strutture figlie del modello fordista e dell’iterazione standardizzata di una tipologia edilizia o costruttiva? Che fare quando invece del Lingotto, considerabile ancora come un unicum perché prodotto extra-ordinario, ci si trova di fronte Mirafiori?

L’azione di valorizzazione non può prescindere da una selezione da effettuarsi a monte. Non solo sappiamo infatti che non tutte le preesistenze industriali possono trasformarsi in musei (di che cosa? Della propria storia? Del lavoro? D’arte? D’altro?), ma occorre anche considerare che, nei casi di rifunzionalizzazione, la preesistenza non è un contenitore indifferente che si può riempire a piacimento. Quando al recupero fisico si accompagna l’individuazione di funzioni caratterizzanti e coerenti, in grado di definire possibili poli d’eccellenza (purché non inflazionati secondo distorte logiche di distribuzione territoriale che mirano all’equipollenza), forse allora le probabilità di riuscita dell’operazione sono reali. Parallelamente, sul fronte dell’architettura, il progetto deve sapersi fare carico della reinterpretazione dei segni e degli spazi esistenti, in delicato equilibrio tra gli atteggiamenti estremi della prevaricazione o della supina deferenza, conscio di essere un episodio (probabilmente neppure l’ultimo) di una stratificazione storica che metabolizza le trasformazioni nella continuità. Solo così l’identità e la memoria di una dismessa «cattedrale del lavoro» possono non venire meno.

Date queste premesse, qual è l’idea di città che emerge da un’analisi dei principali recuperi recenti di aree ex industriali in Italia?

I masterplan rivelano una pretesa di rifondazione urbanistica del sito, azzerando il tempo della stratificazione storica proprio di qualsiasi insediamento. D’altra parte, quando cade il recinto della fabbrica, l’idea di realizzare una parte di «nuova città» collide subito a livello concettuale con la volontà/necessità di relazionarsi a un intorno già antropizzato. Gli interventi in grandi aree a proprietà indivisa oppure in comparti definiti dall’accorpamento di più lotti sono in genere caratterizzati dalla polifunzionalità e dall’aspirazione al disegno organico e riconoscibile. Tuttavia, spesso la regia complessiva latita, trasformando i progetti in opere episodiche, prive di un efficace connettivo urbano: si tratta di uno scollamento tra piano e progetto che è anche specchio di una difficoltà di dialogo tra soggetti pubblici e libera iniziativa privata. Altrove, invece, l’esito va sottolineato più dal punto di vista del processo che per le sue ricadute morfologico-urbane. Risultati più incoraggianti si registrano laddove la dimensione dell’intervento è contenuta entro i 10 ettari.

Può accadere che l’intervento si legittimi attraverso l’idea della green city, caratterizzato dalla presenza del grande parco urbano (magari «integrato» dalle strutture della grande distribuzione commerciale), oppure si configuri come polo specialistico e autonomo. Più in generale, il verde pare l’elemento di compensazione rispetto a schemi urbani omologanti, che prendono forma in edifici la cui unica logica riconosciuta è quella immobiliaristica. Inoltre i parchi tecnologici, gli incubatori d’impresa, i business innovation center definiscono un’inedita tipologia macrofunzionale, non certo edilizia, i cui esiti architettonici raramente sono degni di nota. Gli stessi poli ricettivi e della grande distribuzione commerciale si possono ricondurre al tema dello svago, con esiti prossimi non tanto a modelli urbani quanto agli immaginari della fiction o agli happening fieristici. Invece, nelle aree interessate da una prevalente reidustrializzazione, il disegno urbano si riduce a un problema di lottizzazione.

In genere, la rincorsa del concetto d’innovazione come valore in sé implica che la promozionalità dell’iniziativa immobiliare, soprattutto se privata, è vincente quando il progetto esclude la conservazione, anche laddove non sussistono problemi di bonifica. Rari i casi in cui è l’impianto insediativo preesistente, nel rapporto critico tra operazioni di conservazione, trasformazione e sostituzione, a regolare i nuovi assetti. E nella forbice tra tabula rasa (diffusissima sebbene non sempre dettata da ineludibili problemi di bonifica) e ripristino integrale del sito, la preservazione della memoria si limita alla conservazione di lacerti dell’insediamento preesistente (la ciminiera o il carroponte come landmark, la palazzina uffici, le strutture dei capannoni) dagli esili nessi concettuali rispetto ai nuovi assetti. L’elemento recuperato con maggior ricorrenza (e leggerezza) è il nome, a battezzare interventi che nulla hanno più a che spartire con le destinazioni originarie.

 

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  • Autore: Luca Gibello
note

[1] Rimando al mio volume La politica delle città, Bologna, Il Mulino.