Discutere
Uno sguardo sulla città

Filippo La Porta ha intervistato ventitre scrittori italiani per provare a capire quali sono le forme che stanno assumendo i luoghi in cui abitiamo. Nate da un progetto di esplorazione dello spazio urbano promosso dall’Anci, le interviste sono poi confluite in un volume intitolato Uno sguardo sulla città (Donzelli, Roma 2010).

Nel 1999, quando lei scriveva l’introduzione a La nuova narrativa italiana, sentiva l’urgenza di spiegare per quale strano motivo si stava occupando del suo oggetto. Nel frattempo lo spazio che le grandi librerie hanno riservato alla critica letteraria si è sempre più ristretto e la letteratura – come lei osservava allora – non ha più smesso di «disperdersi nell’ambiente». Pensiamo solo all’acquisizione delle tecniche di story-telling come leva economica o alla sempre più frequente invocazione della politica come narrazione. Che cosa è successo?
La situazione sembra proprio questa e ancora oggi la dispersione nell’ambiente equivale per la letteratura a un suo depotenziamento, alla perdita della vocazione critica e utopica che pure un’intera tradizione le assegnava. E c’è sicuramente un legame tra il rischio di estinzione non solo della letteratura, ma più in generale di tutti i saperi critici e lo svuotamento della sfera pubblica. Le trasmissioni televisive fanno vendere più di qualsiasi recensione o premio letterario, gli editoriali sulla società li scrivono i comici, la distinzione vero-falso è incrinata dai reality e da una politica senza più regole comuni. La cultura, così, viene depotenziata al rango dei consumi e diventa solo uno status symbol o una disciplina tra le altre.

Nel discorso pubblico, però, non si è mai parlato tanto come oggi del valore della cultura, delle sue potenzialità taumaturgiche, della cultura come farmacologia da somministrare alla crisi dei bilanci. Ma se la cultura e la creatività vengono celebrate come valori in sé, indipendentemente da quello che fanno e dalla forma che assumono, una volta che ne abbiamo promosso un uso retorico e per così dire televisivo (i festival, la spettacolarizzazione, gli eventi) non trova che valgano realmente meno degli asili o delle imprese?
Certo, da una parte la cultura ha perso quello che lo storico dell’arte Edgar Wind chiamava il suo “pungiglione”, ma dall’altra si comincia a capire che occorre costruire strutture e iniziative meno effimere delle notti bianche e di altre invenzioni veltroniane. La situazione, rispetto a quando avevo vent’anni, è insieme più bloccata e più fluida. Bloccata perché mercato e spettacolo sembrano condizionare tutto, anche chi vi si oppone. Fluida perché nell’informe blob della cultura dispersa e orecchiata del presente si schiudono continuamente nuove chance per il pensiero critico e anche per forme preziose, aideologiche di solidarietà.

Puo fare qualche esempio?
Prendi i libri di Alfonso Berardinelli: non hanno certo grandi tirature, né l’autore è stranoto, data la sua refrattarietà alle apparizioni televisive. Però quelli che li leggono ne sono anche “formati” e a loro volta, benché minoranza, scrivono, parlano e intervengono in una quantità di spazi pubblici o semipubblici. Inoltre: oggi di qualsiasi film o brano musicale o fiction TV posso scaricare il file, perché qualcuno ha pensato disinteressatamente di metterlo in Rete a disposizione di tutti. E’ il gusto del condividere entro una comunità umana dai confini indefiniti, illimitati, la sobria prefigurazione di un’economia del dono.

Eppure, tra la comunità ristretta degli estimatori e la socialità indefinita della Rete, mi pare che non si possa ancora parlare di una vera e propria ricostituzione della sfera pubblica. Che cosa ha in mente quando parla di nuove chance per il pensiero critico, in questo contesto?
Proviamo a rileggere le due proposte che Nicola Chiaromonte formulava lucidamente mezzo secolo fa: una quieta secessione per i pochi che vogliono salvarsi oppure l’etica artigianale del lavoro ben fatto. Scarterei subito l’ipotesi di secessione da parte di nobili minoranze. Questa secessione è già avvenuta nei fatti. Siamo già tutti molto separati e atomizzati, nonostante o anche a causa della Rete. Inoltre sentirsi parte di una minoranza virtuosa rappresenta una strada rischiosa e un po’ troppo consolatoria, un aspetto sgradevole del cosiddetto narcisismo etico. L’altra proposta invece mi sembra attuale: fare bene il proprio mestiere, non illudersi di incidere su alcunché ma svolgere un ruolo di preziosa testimonianza. Non mi pare ci siano molte alternative ed è proprio questo mestiere che va interpretato in senso critico.

A questo riguardo, l’autore di una delle più grandi imprese critiche del dopoguerra, Mazzino Montinari, dichiarava che il suo obiettivo era quello di lavorare all’edizione completa delle opere di Nietzsche «come un calzolaio fa delle buone scarpe». Mi pare che lei abbia in mente qualcosa di simile, una concretezza del lavoro che ne destruttura di volta in volta le consuetudini e la serialità.
Certo, quella che ho in mente è la figura del professionista o dell’artigiano che va anche contro se stesso, contro una parte del suo stesso sapere tecnico. Muhammad Yunus è il banchiere bengalese che nel 2006 ha vinto il Nobel per aver inventato il microcredito, vale a dire un sistema di prestito per gli imprenditori poveri. Mi evoca Adriano Olivetti, imprenditore di successo che aveva acquisito il controllo sulla Underwood, un’azienda di punta americana, pur essendo capace di criticare l’etica del proprio ruolo imprenditoriale. In fondo ha rappresentato l’unica alternativa italiana alla saga degli Agnelli, capace di pensare un’economia vincente ma non fondata unicamente sul profitto.

Il profitto, appunto. Con le sue interviste ha provato a capire come le città si siano trasformate in seguito alla diffusione dei grandi centri commerciali e degli outlet, chiedendosi quali possano ancora essere i margini di responsabilità e d’intervento della politica. Crede che le politiche di marketing territoriale rappresentino un’alternativa oppure un completamento di questi fenomeni? Qual è il rapporto tra queste politiche e quelle che nel suo libro chiama le irregolarità, le forme non ideali di intenzione comunicativa di una città?
Oggi la differenza diventa spesso un prodotto turistico, un ingrediente del parco a tema, una merce che valorizza anzitutto operatori e politici. Ma a volte lo sguardo degli scrittori che ho avuto modo di intervistare riesce a illuminare un’altra differenza, di cui una città è sempre portatrice, magari nascosta in superficie o appena dissimulata in un modo di dire, nella facciata di un palazzo, dentro una periferia indecifrabile. Mi chiedo: è possibile fare esperienza della propria città? Esiste un orizzonte comune? Che cos’è oggi Roma per me? Una luce struggente, sempre uguale ai quadri di Mafai? La pasta all’amatriciana? Il Corso diventato un outlet? Un dialetto imbastardito ma dalla cadenza inconfondibile, per me accogliente? Oggi si danno tante esperienze della città quanti sono i suoi abitanti e l’individuo deve ogni volta ricomporre il caos in una sua forma unica per poi tentare di trasmetterla agli altri.

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  • Autore: Redazione
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Interista realizzata da Piepaolo Ascari a Filippo La Porta

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L'immagine di questo articolo è tratta da www.flickr.com, autore: Kristof Abrath