Discutere
Internet, biblioteche e piazze come beni comuni.
“La cultura come bene comune, in una società di mercato, non sarà mai un dato di fatto e il progresso tecnologico non è sufficiente a farci muovere in questa direzione”
La questione delle biblioteche come beni comuni ha due aspetti: in primo luogo le biblioteche trasformano un oggetto destinato all’uso individuale (il libro) in un patrimonio comune; in secondo luogo esse sono un luogo pubblico, quindi comune a tutti i cittadini. Entrambi gli aspetti sono essenziali per la nostra riflessione. Le biblioteche hanno svolto un doppio ruolo pubblico negli ultimi due secoli: da un lato sono state punto di incontro, di socializzazione, di confronto tra i cittadini (almeno nei paesi scandinavi e in quelli anglosassoni). Dall’altro hanno tutelato la permanenza del patrimonio della civiltà. “Le grandi biblioteche pubbliche, o quelle delle università così come le scuole pubbliche” scrive Paolo Ferri, “garantivano a tutti e in linea di principio la possibilità di accedere pubblicamente e paradossalmente con maggiore libertà di quanto non accada oggi ai beni comuni della conoscenza”.
La situazione creata da internet è fragile e contraddittoria. Da un lato, la rete permette di accedere a una quantità incomparabile di informazioni “digitalizzate”, cioè trasferite da supporti fisici ingombranti e difficili da gestire su un supporto che ne permette la fruizione contemporanea ai quattro angoli del mondo. Dall’altro, questo stesso supporto non ne garantisce la permanenza, in quanto molto facilmente le informazioni possono essere distrutte (è più facile schiacciare il tasto “delete” che organizzare il rogo di una biblioteca). Non solo: le informazioni potrebbero diventare inutilizzabili per mancanza delle macchine necessarie per il loro recupero. Il supporto-internet assicura una fruizione collettiva dei contenuti incomparabile a quella precedente: un libro cartaceo stampato in 3.000 copie permette un massimo di 3.000 letture contemporanee e, in pratica, infinitamente meno, perché le copie nelle mani dei privati stanno sul loro scaffale fino al momento in cui il possessore non decida di rileggere il volume. Oggi, una copia messa in rete permette, in teoria, la fruizione contemporanea di due miliardi e forse più di persone, tutte quelle collegate a internet. Abbiamo quindi una fragilità dei nuovi supporti che si accompagna a un aumento esponenziale della loro fruibilità. Ogni ragionamento sulla “conoscenza come bene comune” deve partire da qui: dalla tensione che esiste fra queste caratteristiche intrinseche della rete. Ci saranno momenti in cui prevarrà l’aspetto collettivo, la fruibilità, e momenti in cui il problema della fragilità diventerà la questione chiave. Oggi siamo tutti abbacinati dall’informazione gratuita in rete e quindi non ci preoccupiamo della fragilità di internet, che pure dà segni di crescere rapidamente.
In tutto il mondo i fondi per servizi comuni, come le biblioteche, diminuiscono a vantaggio di altre voci del bilancio dello stato, con il pretesto che le raccolte di libri “costano troppo” e che internet offre tutto gratis, tutto subito, tutto da casa nostra. In realtà, non tutto sta su internet e i prodotti gratuiti in futuro saranno sempre meno. Non solo: il “tutto subito” non significa necessariamente arrivare a trovare quello che cerchiamo. Nel caos della rete, per orientarsi forse ci vuole qualche aiuto in più di quello che possono fornire gli algoritmi di Google. Infine, il “tutto da casa” sarà in futuro ristretto da budget familiari stagnanti, da posizioni di monopolio che tenderanno a far pagare a caro prezzo tanto i “tubi”, cioè il collegamento con la banda larga, quanto “l’acqua”, cioè i siti più ricchi e interessanti. Diamo per scontato quel che scontato non è, un mondo capillarmente collegato in rete, dove ogni uomo o donna, dalle steppe dell’Uzbekistan alle favelas di Rio de Janeiro, ha accesso a internet. Questo scenario farebbe venir meno il bisogno di biblioteche? Al contrario. Un mondo così organizzato avrebbe comunque al suo interno centinaia di milioni di persone prive di accesso alla rete perché non collegati alla rete elettrica, troppo poveri, o analfabeti, o semplicemente incapaci di usufruire delle tecnologie necessarie. Tutti costoro, salvo privarli dei loro diritti di cittadinanza, avrebbero bisogno di biblioteche per restare in contatto con il patrimonio dell’umanità.
Ma anche i cittadini di classe media delle democrazie industriali non possono illudersi di poter fare a meno di strutture collettive che garantiscano la sopravvivenza delle informazioni come internet, per la sua intrinseca fragilità, non può fare.
Per quanto detto prima, non si può escludere che parti rilevanti della conoscenza storicamente accumulata vengano in futuro sottratte alla libera fruizione per una combinazione di fattori che potrebbero rapidamente fare massa critica: “Oggi la recinzione dei beni comuni intellettuali e della conoscenza non è provocata da una singola decisione o atto di questo o quel soggetto internazionale e globalizzato, ma dalla co-evoluzione globale del nuovo sistema di interessi, insieme tecnologici, politici ed economici”. Per fortuna, a queste tendenze si oppongono oggi spinte positive più forti di qualche anno fa. I cittadini hanno riscoperto mille forme di cooperazione: il gruppo d’acquisto solidale che ha cominciato a comprare anche beni non alimentari - cosmetici, detersivi, giocattoli; l’energia elettrica, dopo la recente liberalizzazione. Tornano nuove forme comunitarie, dalle banche del tempo al co-housing e al turismo basato sull’ospitalità o sullo scambio di case. Si diffonde sempre più l’open software, dove la condivisione continua e gratuita della conoscenza diventa uno degli elementi essenziali dello sviluppo. Si tratta di uno stile di vita nuovo che avanza, non di una semplice necessità indotta dalla crisi e dal ritrarsi della presenza dello Stato. Questo non significa che le spinte alla privatizzazione, al taglio dei servizi, allo “strangolamento” del settore pubblico, tra cui le biblioteche, non siano fortissime e questo ci conduce alla seconda delle nostre riflessioni, cioè il problema della biblioteca come spazio comune a disposizione dei cittadini.
Negli ultimi anni la commercializzazione degli spazi urbani è progredita in fretta, facendo quasi scomparire i luoghi di scambio e di confronto: per il sociologo californiano Mike Davis, “gli spazi pseudo pubblici della città di oggi – centri commerciali, parchi aziendali, acropoli culturali artificiali e così via – sono cosparsi di simboli diretti ad allontanare i «diversi» indesiderabili”. Fino a ieri, privare i cittadini di luoghi come la sala d’aspetto in stazione, o le panchine nei parchi, sarebbe stato assurdo: oggi è una realtà in molte città che si vorrebbero civili.
Non possiamo parlare di beni comuni se proprio i luoghi di incontro dei cittadini come i mercati, le piazze, le chiese, i municipi vengono privati di questa funzione: come duemila anni fa, le piazze rimangono una necessità primaria per la vita pubblica, oggi confinata in luoghi chiusi, o privatizzati e accessibili solo con difficoltà. La città moderna nasce intorno ai suoi luoghi pubblici, a partire dai caffè che nascono come spazio di ragionamento, di confronto, di formazione dell’opinione pubblica. Le piazze rimangono l’essenza della democrazia: non a caso nei momenti di tensione e conflitto si riempiono. E’ molto significativo il fatto che la fantascienza immagini solo metropoli del futuro che ne sono prive: la Los Angeles di Blade Runner o le città spaziali dei romanzi di Asimov sono sempre luoghi claustrofobici, fatti di edifici e appartamenti, strade e sistemi di trasporto, mai parchi e giardini. Scrittori come Ray Bradbury, Robert Heinlein, Philip Dick ci hanno descritto mondi in cui si vive in microappartamenti, ci si sposta con ascensori o metropolitane aeree, ma certamente non si va in piazza.
Nel futuro la biblioteca pubblica potrebbe svolgere un ruolo essenziale di difesa degli spazi comuni offrendosi come luogo di incontro, come “piazza coperta” a disposizione dei cittadini di ogni età, provenienza e condizione sociale. Questo esige una riflessione molto più approfondita di quanto non si sia fatto fino ad oggi da parte di amministratori, architetti e bibliotecari. Che caratteristiche dovrebbero avere dei luoghi piacevoli, affollati, culturalmente stimolanti? Questo è uno dei motivi per cui abbiamo bisogno di edifici belli, curati, piacevoli da vivere: sarebbero una risposta al degrado dell’ ambiente urbano. Le piazze italiane, con le loro chiese, sono state per secoli un esempio di come soddisfare tanto il desiderio di ordine e leggibilità quanto quello di ricchezza e meraviglia: oggi sono sempre più spesso imbruttite da parcheggi, fast-food, bancarelle di souvenir, eccesso di turisti. La biblioteca pubblica può avere in futuro un ruolo essenziale se riflette alla propria funzione anche in rapporto agli spazi urbani che la circondano.
La crisi è l’occasione per far comprendere a politici e amministratori che la riscoperta dei beni comuni è ormai una strada obbligata. Nelle biblioteche americane malgrado i tagli pesantissimi al sistema delle biblioteche aumentano le visite nelle biblioteche, il numero di libri prestati e l’uso del computer. Le statistiche degli altri stati americani vanno tutte nella stessa direzione: c’è un forte ritorno alla biblioteca legato alle difficoltà delle famiglie per l’acquisto di libri, cd o video. C’è un uso più intensivo delle attrezzature messe a disposizione dalla biblioteca, in particolare internet, c’è un forte aumento delle richieste di referenze ai bibliotecari. La cultura come bene comune, in una società di mercato, non sarà mai un dato di fatto e il progresso tecnologico non è sufficiente a farci muovere in questa direzione, piuttosto il contrario. La condivisione è il frutto di interessi economici, regimi proprietari e rapporti di forza sociali che variano moltissimo: il nostro compito, come bibliotecari, amministratori e cittadini è quello di lottare tenacemente per far sì che la cultura diventi effettivamente comune difendendo biblioteche, cineteche e musei che governi miopi e irresponsabili vorrebbero chiudere. Non è una battaglia facile, non si devono sottovalutare gli ostacoli e occorre grande chiarezza nell’analisi.