Campo della Cultura / Sezione seconda
L'evento e il riconoscimento: l'esperienza di ModenaMedina
cap. 15
Si è cercato di leggere, attraverso il costituirsi di una nuova istituzione, le vie possibili e le resistenze di un percorso che ad oggi non sembra possa essere dato per scontato.
Nelle pagine precedenti si è utilizzata l’esperienza della Casa delle Culture di Modena per introdurre il tema della diversità culturale in città, e delle risposte possibili che si situano entro il campo della cultura. Si è cercato di leggere, attraverso il costituirsi di una nuova istituzione, le vie possibili e le resistenze di un percorso che ad oggi non sembra possa essere dato per scontato. Alcune premesse rimangono ovviamente valide anche in questo secondo rapporto, in cui si è concentrati su un “evento”, ModenaMedina, e sui caratteri assunti dalle reti di attori che lavorano per costituirlo.
Da un punto di vista generale, ricordiamo che il tema della diversità culturale subisce inevitabilmente gli effetti delle decisioni prese a livello nazionale, che toccano i diritti di base degli immigrati in Italia e i meccanismi di riconoscimento e cittadinanza, e che incidono pesantemente sulle reali condizioni di vita e di integrazione degli stranieri nel nostro Paese.
Pur tenendo a mente questa come condizione ineludibile, e che al momento appare particolarmente preocuppante, si può riconoscere una “specificità urbana” nel costruire pratiche, se non politiche, di cittadinanza: la città può essere letta come il contesto in cui ruoli e significati dell’essere “cittadini” vengono continuamente erosi o costruiti, discussi o conquistati (Holston, Appadurai, 1996).
Un altro punto da cui partire, emerso con forza nel lavoro del 2007, riguarda le necessità di considerare la sfera culturale come un ambito critico dei processi di integrazione che interessano la città di Modena: usi diversi del tempo libero, ma anche linguaggi e rappresentazioni differenti, insieme al significato simbolico che carica di sensi identitari le manifestazioni culturali, contribuiscono a rendere questa parte della vita pubblica uno spazio più frammentato di molti altri.
Le attività culturali e più in generale il modo di vivere ed esprimersi nel tempo libero sembrano costituire un problema o, con più ottimismo, una potenzialità inespressa dei processi di integrazione.
L’esperienza modenese ci induce a riconoscere che l’incontro, la reciproca apertura di canali di comunicazione, non si dia da sé, in modo naturale: un esempio è negli usi dello spazio pubblico, che spesso vedono il costituirsi di nuovi confini, non ufficiali ma chiaramente percepibili, tra vecchie e nuove popolazioni urbane. Come osserva Amin (2002), questi spazi non si costruiscono spontaneamente come luoghi di mutua interdipendenza: talvolta diventano lo specchio di processi di reciproca esclusione.
Concretamente: “La domenica si fanno cose diverse: gli stranieri fanno messe, fanno incontri per matrimoni o battesimi, vanno nei parchi a fare le grigliate a trovarsi o mangiare. Sono ancora pezzi che non comunicano. Anzi. Già se non comunicano va bene; spesso è nel tempo libero che si genera la diffidenza. Le donne nei parchi; gli africani che si ritrovano; i filippini che si prendono tutte le panchine al parco Enzo Ferrari … perché rubano i “nostri” spazi. I nostri di chi, poi” (A.L.).
La scelta di concentrarci su un evento culturale pubblico che è stato capace negli anni di costruirsi un suo spazio e una sua riconoscibilità in città, muove da queste brevi considerazioni, e dall’ipotesi che, a fianco di altre azioni, questi momenti possano creare occasioni di incontro e di reciproca scoperta che permettano di superare una logica in cui le diverse comunità vivono i momenti collettivi ed espressivi in modo esclusivo e separato.
Si è cercato insomma, di utilizzare un punto di vista che mettesse in risalto la capacità dell’evento culturale di generare sorpresa, stupore, e una conoscenza dell’altro al contempo più matura e fresca, proprio perché inattesa.
Come spiega Amin (op. cit.: 968), se il contatto abituale, la co-presenza - che pure si dà, e su cui resta essenziale lavorare - non basta ad assicurare un cambiamento di attitudine verso l’altro o una conoscenza che superi le reciproche stereotipate rappresentazioni (dell’immigrato maghrebino, del giovane africano, della badante ucraina, del modenese), forse i momenti di “trasgressione” dal ritmo quotidiano della città possono incoraggiare il superamento degli stereotipi, e la realizzazione di momenti di incontro più profondi.
L’interesse per la forma evento si giustifica anche per altre ragioni: oltre all’evidente diffusione che sta conoscendo nelle città italiane, quello che appare significativo è la capacità di veicolare, sia all’interno che all’esterno, le immagini della città. Spesso, l’attenzione sull’immagine che la città da di se stessa appare eccessivo, e schiacciato su strategie di marketing urbano di scarso spessore, o peggio su tendenze alla “vetrinizzazione” della città (Codeluppi, 2007).
Ma se si guarda al campo della cultura, il tema delle auto-rappresentazioni non richiama tanto una questione di promozione della città, quanto invece l’inesausto processo di competizione, intreccio e selezione delle immagini che la città sceglie di dare di se stessa.
Il tema di un festival, la scelta di una piazza o di un momento dell’anno, le modalità con cui gli eventi sono comunicati, oltre al modo in cui sono costruiti, ci danno informazioni su come la città dà risposte alla natura inevitabilmente selettiva delle politiche culturali, e le relazioni anche conflittuali tra cittadini e rappresentazioni urbane.
ModenaMedina e Banda Larga, percorsi di sviluppo
ModenaMedina nasce nel 2004, da un’idea degli operatori del Centro Stranieri, e in collaborazione con il Centro Musica di Modena: si tratta di una festa, la cui durata e collocazione è cambiata negli anni, la cui caratteristica principale è quella di essere animata dai musicisti stranieri che vivono sul territorio modenese. Dal racconto degli operatori del Centro Stranieri che l’hanno promossa, si apprende che l’idea nasce come evoluzione della “Festa delle Culture”, iniziativa legata alle attività avviate in collaborazione con le Circoscrizioni.
L’iniziativa di ModenaMedina è forse l’evento più importante organizzato dal Centro Stranieri, e si inserisce in una progressiva attenzione alle attività culturali che l’ufficio ha assunto nel corso degli anni. Dal 1990 infatti ci si è resi conto che la risposta ai bisogni primari, che costituiva la prima attività dell’ufficio, non era sufficiente per rispondere a una domanda di “cittadinanza”, per riprendere il tema lanciato in apertura, che proveniva dalle popolazioni immigrate. A partire dalla metà degli anni Novanta sono state promosse iniziative che potremmo definire “introduttive”, come la presentazione agli stranieri del sistema bibliotecario o piccole rassegne cinematografiche, pensate per fare conoscere agli immigrati l’offerta culturale territoriale di base. Da questi primi passi, l’attività del Centro Stranieri si è via via intensificata in senso culturale, soprattutto attraverso la collaborazione con le realtà associative più radicate presenti sul territorio. Anche l’organico dell’ufficio è cresciuto, e due operatori (uno full-time, e uno part-time) si dedicano ora interamente alle attività culturali.
Il lavoro del centro Stranieri si articola oggi su due piani: da un lato si cerca di far partecipare gli stranieri (organizzati in associazioni o come gruppi, o singoli), alle attività che si svolgono in città, nelle consulte, nelle scuole, nelle circoscrizioni, o in collaborazione con il mondo dell’associazionismo locale.
Dall’altro, si mira a realizzare eventi che riescano ad ottenere una certa visibilità sulla scena cittadina, con l’intento di coinvolgere anche quei modenesi che “sono i più bisognosi di mettere in discussione la loro idea di immigrato, di immigrazione, di persona straniera, che hanno bisogno di luci nuove su questa cosa. Non solo per i cittadini, ma anche per le stesse istituzioni” (AL, intervista 2007).
E’ in questa seconda cornice che si situa quindi ModenaMedina, entro un percorso che ha riconosciuto negli anni il ruolo delle attività culturali nel costruire reciproca conoscenza, inserimento, cittadinanza.
La realizzazione di ModenaMedina è stata resa possibile dalla stretta collaborazione tra il Centro Stranieri e il Centro Musica, il quale ha messo a disposizione competenze indispensabili nell’organizzazione di eventi musicali, e spazi per le prove dei musicisti. I due uffici lavorano quindi insieme sin dalla prima edizione, e lo sviluppo che la festa ha avuto negli anni sembra essere strettamente legato a questa sinergia.
Nel 2004 e nel 2005 la festa si è svolta in una giornata, dal tardo pomeriggio alla sera, nella zona di Piazza Pomposa: i musicisti stranieri hanno suonato per le strade e nella piazza, attirando un pubblico misto, fatto degli stranieri delle diverse comunità e dai modenesi, sia quelli venuti per assistere (perché comunque sensibili o interessati), sia quelli che semplicemente si trovavano in centro per la passeggiata del sabato pomeriggio. Sia M.V. sia A.L. hanno richiamato l’attenzione sulla collaborazione di alcune gallerie d’arte della zona (in particolare, la Galleria Mazzoli), che hanno ospitato i musicisti nei loro spazi: questo ha rappresentato un riconoscimento importante, sia per i musicisti sia per gli organizzatori della festa, di un valore artistico che viene riconosciuto come capace di trascendere l’etichetta “etnica”.
Dal 2006, insieme allo sviluppo dell’esperimento di Banda Larga che verrà ripreso in seguito, si affiancano al Comune di Modena altri tredici Comuni della Provincia, dando vita a un cartellone mensile allargato sul territorio, che beneficia del lavoro di esplorazione e dell’impostazione organizzativa già realizzata dal Comune di Modena.
Il 2008 ha segnato un ulteriore passaggio ritenuto molto significativo dagli operatori, con l’organizzazione di una giornata a Oltre i Giardini, in un contesto quindi definito come “il salotto buono” della città. Si legge, insomma, la volontà di uscire dalla nicchia protetta ma anche asfittica delle iniziative etichettabili come “etniche”, un percorso che implica un riconoscimento di qualità e di contributo alla vita culturale dell’intera città.
Il carattere innovativo di questa esperienza sembra situarsi su due livelli che anticipiamo brevemente, e che verranno approfonditi nel paragrafo seguente attraverso una lettura delle reti che costituiscono ModenaMedina come evento e come processo.
Un primo livello è quello del giorno dell’evento, del momento in cui si rende possibile una reciproca scoperta, un’occasione di incontro che può anche essere inaspettato. La “spettacolarizzazione” offre alla città l’occasione per vedere una parte di se stessa, della diversità che la abita, normalmente nascosta durante il corso dell’anno.
Un secondo livello è rappresentato dal processo che impegna gli operatori per buona parte dell’anno: un lavoro di costruzione che appare piuttosto impegnativo, e che si affianca all’attività più ordinaria del Centro Stranieri.
Banda Larga come prodotto culturale
Il processo di esplorazione delle risorse musicali locali conduce quindi costruire la giornata di ModenaMedina, come evento; ma ha portato con sé, anche attraverso la collaborazione del musicista Giovanni Rubbiani, la costituzione di una band locale, composta da alcuni tra gli artisti incontrati durante il primo anno di ricerca. Si avvia quindi nel 2005 l’esperienza di Banda Larga, anche sulla scia del successo che riscuote l’Orchestra di Piazza Vittorio, una delle più note band multietniche italiane, nata nel quartiere Esquilino romano.
Attraverso le parole di Milena Valentini, operatrice del Centro Musica: “Questo è il naturale sbocco, a prescindere se si lavori o no con gli immigrati: è una delle grandi chance che ha la musica, il bisogno di nuove idee, una cosa che il mercato in Italia non sembra capire. Quindi il mettersi insieme, il mescolare culture e sonorità è uno sviluppo, e vale per tutte le arti; ModenaMedina è un naturale sbocco culturale. Questa operazione è davvero faticosa, fa perdere molto tempo, ma è il successo della manifestazione. Il prodotto culturale è Banda Larga”
Nel biennio 2005-2007, Banda Larga si esibisce con alcuni concerti sul territorio locale, che però non si ripetono nel 2008, con l’eccezione della serata ai giardini pubblici. L’esperienza sconta infatti alcune difficoltà, che riguardano sia i caratteri peculiari di questo tipo di esperienza, sia una più generale difficoltà del mondo della musica dal vivo. Il progetto non è abbandonato, ma sospeso al momento della nostra indagine, con la speranza di essere ripreso in un futuro prossimo. L’esperienza di Banda Larga può essere vista come un prodotto, forse temporaneo ma concreto, nato dal processo di costruzione dell’evento, e permette di mettere in luce alcune dimensioni interessanti.
Innanzi tutto, la costituzione di una band ha costituito e rafforzato i legami sia tra i musicisti, sia tra i partecipanti sia con altri gruppi, entro cui alcuni di loro hanno trovato spazio per esibirsi con più regolarità. Inoltre, l’esperienza ha messo in luce come alcuni servizi come le sale prova non fossero conosciuti dai musicisti stranieri, che pure ne avrebbero potuto usufruire.
Gli aspetti più critici sono stati certamente la mancanza di tempo da dedicare all’iniziativa da parte dei musicisti, ma ancor di più la difficoltà ad orientarsi in un mondo, quello musicale locale, potendo sostenersi con budget più che esigui, che non consentono di disporre di fondi per le attrezzature, per gli spostamenti, per contribuire minimamente al compenso per gli artisti.
Da questo punto di vista, secondo Rubbiani, la difficoltà di una band come Banda Larga è quella di trovare un sostegno nel mercato pubblico dello spettacolo dal vivo (passaggio questo necessario per la maggior parte dei gruppi italiani, anche di qualità ma che non possono contare su un pubblico fisso e ampio di riferimento), a cui dovrebbe accompagnarsi un maggiore appoggio istituzionale, che ne riconosca il senso come progetto qualificante per la città.
Come si cercherà di spiegare meglio, la questione del riconoscimento istituzionale tocca da vicino le attività culturali che si orientano alla diversità e all’inclusione.
L’esperienza di Porta Palazzo, Torino
Sull’onda del successo incontrato dall’Orchestra di Piazza Vittorio, sono nate in Italia diverse esperienze di band multietniche, tutte connotate dal doppio binario del legame territoriale e dalla ricerca di stili musicali misti, che riflettono e rielaborano le diverse provenienze. Da questo punto di vista, è interessante notare che i nomi che questi gruppi si sono dati richiamano direttamente i toponimi dei quartieri urbani che sono al centro della vita delle nuove popolazioni urbane: a Torino, Porta Palazzo; a Genova, Piazza Caricamento; a Milano, Via Padova. E se da una parte il successo trainante dell’esperimento dell’Orchestra di Piazza Vittorio ha probabilmente influito, dall’altro questa scelta sottolinea il radicamento territoriale, e suggerisce la nuova natura che questi spazi urbani hanno conosciuto attraverso le popolazioni che li abitano.
L’esperienza dell’orchestra di Porta Palazzo di Torino, per diversi aspetti paragonabile a quella modenese, appare interessante soprattutto nella sua capacità di resistere e rafforzarsi, capacità tanto più significativa viste le condizioni non semplici di contesto in cui muovono le realtà musicali di questo tipo.
Come Banda Larga, anche l’Orchestra di Porta Palazzo nasce da un lavoro di esplorazione del tessuto dell’immigrazione locale, condotto però in questo caso da una coppia di musicisti torinesi (Mauro Basilio e Elisa Fighera), da tempo interessati ai linguaggi musicali che provengono da questa parte della città di Torino. L’occasione per incontrare musicisti stranieri è stata offerta dalla collaborazione con un’associazione teatrale, che nel 2005 ha organizzato un laboratorio nel quartiere di Porta Palazzo, e realizzato due spettacoli insieme agli abitanti del quartiere, in buona misura stranieri. La buona risposta degli abitanti al progetto, ha condotto alla fondazione di una associazione, Place du Marchè, con lo scopo di avviare un percorso musicale professionale insieme ai musicisti stranieri incontrati, e ad altri che nel tempo si sono uniti al gruppo.
Come spiega M.B.: “Non c’è mai stata una metodologia precisa per la ricerca, si sono usati tutti i mezzi necessari di volta in volta: all’inizio abbiamo cercato di contattare le varie comunità attraverso le loro associazioni, i loro esponenti religiosi, ecc... abbiamo messo annunci sul giornale e nei negozi di strumenti musicali, abbiamo frequentato i concerti dove sembrava poterci essere un musicista straniero. Oggi i nuovi ingressi arrivano più facilmente per conoscenze (qualche musicista dell’orchestra coinvolge qualcuno di sua conoscenza) o frequentando i concerti, e sono più mirati: iniziamo la ricerca di un musicista quando avvertiamo la mancanza di qualcosa”.
La tenuta dell’Orchestra di Porta Palazzo sembra essere legata a una progressiva responsabilizzazione dei suoi componenti: i due promotori mantengono i contatti istituzionali e promozionali necessari per continuare l’attività, ma le scelte artistiche ed organizzative sono legate alla responsabilità e alla implicazione attiva di tutti i musicisti. Il punto di riferimento è uno spazio che il Comune ha affidato all’Orchestra, una ex carpenteria che è stata attrezzata dagli stessi musicisti, e che col tempo continua ad essere curata e migliorata, come spazio di tutti. Ciascuno dispone delle chiavi, ed è quindi possibile accedervi anche individualmente, o in sottogruppi (al momento ad esempio si sta organizzando un corso di percussioni aperto all’esterno). La possibilità di gestire in modo completamente autonomo uno spazio inserito nel contesto di vita di molti dei musicisti ha certamente contribuito a dare slancio all’iniziativa. Inoltre, la condivisione di una pratica artistica sentita da tutti come importante sembra abbia permesso di superare le prevedibili difficoltà di qualsiasi gruppo altamente eterogeneo; anche i nuovi ingressi sono oggi visti in questa prospettiva, legati cioè alle necessità di crescita artistica del gruppo.
L’esperienza dell’Orchestra di Porta Palazzo ha in sé una componente spontanea, non istituzionale, sviluppatasi grazie ad una interazione positiva e alla fiducia che i musicisti stranieri hanno riposto nel progetto collettivo. D’altra parte, è caratterizzata da un radicamento territoriale preciso (interessante da questo punto di vista il volume a cura di Vietti F., Torino è casa nostra, 2009) a cui ha contribuito la possibilità e la responsabilità di disporre liberamente di uno spazio autonomo.
Pur nel suo sviluppo autonomo, l’esperienza è stata avviata e fa parte, anche se non in senso istituzionale, di un percorso di riconoscimento e rigenerazione che ha interessato questa porzione del centro storico di Torino già dalla metà degli anni Novanta.
Nel 1996 è stato infatti ottenuto un finanziamento per un Progetto Pilota Urbano finanziato dal Fondo Sociale Europeo, chiamato "The Gate-living not leaving" , volto a migliorare le condizioni di vita e di lavoro del quartiere. Il progetto ha condotto alla costituzione di un organo no-profit, il Comitato Progetto Porta Palazzo, a cui hanno partecipato istituzioni pubbliche e di enti privati, con l'incarico di gestire e realizzare l’intero programma, finanziato principalmente dall’Unione Europea, dalla Città di Torino e dal Ministero dei Lavori Pubblici. Il Progetto si inserisce in un quadro di grandi investimenti di matrice straordinaria che hanno caratterizzato lo scorso decennio per l’area torinese, con i quali il Comune ha inteso modificare profondamente assetto e immagini della città, alla luce delle criticità che i mutamenti socio-economici lasciavano emergere.
Per il quartiere di Porta Palazzo, questo si è tradotto in una serie di interventi sia fisico-ambientali, sia sociali e culturali, innescando un processo di rigenerazione e coinvolgimento dei cittadini che è proseguito negli anni attraverso la creazione di una Agenzia di sviluppo locale, The Gate. Il nome richiama la funzione tradizionalmente assunta dal quartiere, il primo punto di arrivo per le onde migratorie che hanno interessato la città, a partire dagli anni dello sviluppo industriale con l’immigrazione dal Sud, fino ad oggi, in cui i flussi provengono da Paesi extra-comunitari.
Nel corso degli anni il quartiere ha assorbito i nuovi arrivi, ma ha anche assunto una connotazione negativa, associata a un senso di insicurezza, prodotto da un tasso di criminalità maggiore rispetto al resto della città, un largo numero di edifici ormai in pessime condizioni, e una conflittualità tra vecchi e nuovi abitanti. Una caratteristica identitaria del quartiere - quella di “porto” di Torino, e di varietà culturale - che si trasforma in una criticità.
Senza l’ambizione di entrare nel merito di un progetto molto vasto, è interessante notare che i successi dell’iniziativa sembrano attribuibili al modo in cui l’Amministrazione comunale si è posta rispetto alle problematicità anche gravi dell’area: si è cercato cioè un coinvolgimento dei gruppi di interesse locale a vario livello, evitando di partire da soluzioni pre-confezionate, ma guardando al quartiere con un approccio sperimentale e attraverso credibili processi di partecipazione, per adattare i progetti ai bisogni reali di chi vive e lavora nel quartiere. Da questo punto di vista appaiono molto interessanti le parole di Ilda Curti, Assessore all’Integrazione del Comune di Torino: “Si tratta di trasformare con la città e non trasformare sulla città, avendo chiaro per chi si agisce, con chi si negoziano le regole per un uso inclusivo dello spazio pubblico e delle opportunità che si generano in città. Le città storiche nascono e si stratificano individuando spazi di relazione: le piazze, i mercati, i parchi sono gli elementi dove si forma l’arena delle relazioni tra abitanti. La città contemporanea ha privatizzato gli spazi pubblici, ne ha normato e regolamentato l’uso: qui giocano i bambini, qui gli anziani, lì si va a fare shopping. Spesso i nuovi cittadini - gli immigrati - irrompono nello spazio pubblico scardinando le regole: usano i marciapiedi, le piazze, i parchi e generano conflitto, disordine, rumore. In realtà la negoziazione delle regole riporta al centro, anche per i vecchi cittadini, il fatto che lo spazio pubblico è di tutti e quindi può essere regolato, ma soltanto se tutti gli attori coinvolti hanno voce per sedersi al tavolo (i ragazzi del Bangladesh o del Pakistan che giocano a cricket nelle piazze o le donne peruviane che fanno da mangiare per i loro connazionali la domenica nei parchi pubblici). Riconoscere il diritto alla socializzazione nello spazio pubblico significa evidenziare il primato della città e, con tutte le difficoltà, significa affermare il diritto alla socializzazione e all’incontro nell’arena pubblica della città” .
Le iniziative culturali che dalla metà degli anni Novanta hanno accompagnato l’azione del Comitato, poi Agenzia di sviluppo locale, sembrano muoversi sui binari di una doppia comunicazione: da un lato, per rafforzare una immagine del quartiere che superi le rappresentazioni di degrado e pericolo che lo stigmatizzano come area problematica della città; dall’altro, per costruire occasioni di confronto, inclusione e negoziazione, in stretta collaborazione con le associazioni e le comunità presenti sul territorio.
Da questo punto di vista, l’Orchestra di Porta Palazzo è solo un piccolo elemento, nato effettivamente in modo spontaneo; ma d’altra parte, cresciuto in un contesto di azioni positive ed esplicite orientate ad allacciare legami tra gli spazi della città e i nuovi e vecchi abitanti, attraverso un’azione politica che ha agito a vari livelli, di ampio respiro, e che prosegue da oltre dieci anni.
I caratteri della rete: centralità dell’esplorazione, allargamenti e resistenze
“Lavorare sulle reti” viene definito dagli operatori come la modalità di azione seguita da tutte le attività culturali promosse dal Centro Stranieri.
Ad emergere è un lavoro da un lato minuzioso, personale, talvolta delicato, volto a favorire l’interazione tra i cittadini stranieri e la realtà locale; dall’altro, si concretizza in una costante ricerca di appoggi istituzionali che sembra ancora difficile poter dare per scontati.
Le relazioni istituzionali si realizzano volta per volta, a livello locale: nel caso di ModenaMedina, la partnership costituente è stata quello con il Centro Musica, che ha contribuito sia fornendo spazi alle attività dei musicisti, sia come consulente nell’organizzazione dell’evento, attraverso una sinergia sia progettuale sia operativa.
Esplorazione e territorio
L’attività più significativa che caratterizza ModenaMedina si colloca sicuramente nella ricerca dei potenziali artistici tra le comunità di immigrati presenti in città, e che normalmente non sono visibili sulla scena locale. Questa fase è stata descritta come particolarmente impegnativa da G.R., il musicista che collabora volontariamente con il Centro Stranieri per questa iniziativa, e che in seguito si è fatto carico del progetto di Banda Larga.
Le difficoltà del lavoro di scoperta e coinvolgimento sono sostanzialmente di tre ordini:
-la prima riguarda l’accesso ai canali di comunicazione degli stranieri, del tutto diversi da quelli più tradizionalmente cittadini (come lo stesso Centro Musica, le sale prove, i negozi specializzati, i locali), e che si basano soprattutto sul passaparola, e sulle conoscenze personali che si giocano spesso quasi interamente all’interno dei diversi gruppi di stranieri;
-un secondo livello di difficoltà, una volta contattati i musicisti che decidono di partecipare al progetto, riguarda la necessità di stabilire insieme metodi di lavoro in comune, tenendo conto di esigenze di vita spesso molto stringenti, che non consentono di poter disporre di ampi margini di tempo libero;
-infine, quella che viene definita come la sfida più interessante, riguarda la necessità di armonizzare e rendere apprezzabili anche ad un pubblico italiano i diversi linguaggi musicali, che spesso sono cresciuti entro specifici momenti (di festa, di celebrazione) e comunità.
ModenaMedina e il progetto BandaLarga si sono costruiti attraverso progressivi reciproci apprendimenti, che hanno riguardato sia il piano strettamente artistico, sia le modalità gestionali e performative. Ad esempio, i musicisti stranieri hanno vissuto inizialmente come non valorizzante l’opzione di suonare come buskers, per le strade, come spiega G.R.: “Un altro problema, rispetto alla forma di Modena Medina, è un certo rifiuto a suonare come buskers, per strada, scelta che invece tipicamente funziona molto bene e piace ai musicisti italiani, ha costi bassissimi e anima le strade. Per gli stranieri invece, questo è stato inizialmente percepito come un suonare di serie B, sebbene poi attraverso la discussione il problema sia stato superato”.
Il recruitment, sia per ModenaMedina sia per Banda Larga si trasforma in un processo di apprendimento reciproco, di creazione di fiducia, di costruzione di modi di lavorare insieme, ma anche di un linguaggio che permetta di uscire dal terreno scivoloso della “musica etnica”.
Il rischio che fin dall’inizio è stato ben presente nella mente degli organizzatori era quello di creare una specie di riserva indiana, in cui la musica proposta si qualificasse esclusivamente come “etnica”, e fosse ascoltata solo in quanto “straniera”, e non per una sua godibilità e qualità. E’ stato quindi necessario lavorare su un linguaggio musicale valido al di fuori degli specifici contesti comunitari. Rubbiani parla di “salto culturale” o di “ponte”, per di evitare un “multiculturalismo paternalistico”.
Alla base, vi è il mandato, l’esperienza, e l’intuizione del Centro Stranieri.
Il mandato è quello di lavorare per rendere possibili e reali i processi di integrazione che evidentemente non si danno in modo scontato e naturale, tra cittadini modenesi e immigrati. Se questo è il fine principale di tutte le azioni in campo culturale messe in campo, si spiega la scelta di lavorare strettamente sul territorio, evitando ingaggi esterni che pure possono portare un contributo utile, ma che non sedimentano nel tessuto locale.
Con le parole degli operatori: “Perché noi facciamo delle cose che non possono entrare nel discorso dell’evento, ci siamo sempre detti che noi non avremmo e non vogliamo, anche se in alcune occasioni dobbiamo farlo, costruire eventi importantissimi del tipo “scegli - compri - paghi”, fai bellissima figura, e tutti si sentono a posto. La nostra prospettiva è più complicata: partiamo dall’idea che con una persona ci fai qualcosa, ci stabilisci un rapporto, e il margine di rischio è più alto. Non puoi verificare bene le cose, le risorse non bastano mai... certo comprare oggi un relatore che ti fa una conferenza e ti fa fare bella figura, lo trovi. Chiedere a una persona di presentare un film, e questa persona non lo fa come mestiere perché magari tutto il giorno lavora in fabbrica, è più complicato”.
L’esperienza ha indotto quindi a porre attenzione alle relazioni, ad un lavoro minuto che coinvolge le persone una ad una: per questo, anche quando sono intervenuti, come nell’ultima edizione, musicisti stranieri noti a livello internazionale, hanno suonato insieme al gruppo di Banda Larga alla ricerca di una integrazione musicale che diventa anche umana. In un altro caso, è stata la comunità ghanese locale a invitare, ospitare e spesare un musicista ghanese molto noto nel suo Paese d’origine, che si è esibito in Piazza della Pomposa in una delle edizioni della Festa.
L’intuizione poi che porta a inventare ModenaMedina è quella di usare linguaggi comprensibili alla città: la musica, l’evento pubblico, l’uso di spazi attraversati quotidianamente dai cittadini.
Le relazioni istituzionali
Dal punto di vista della relazione con le istituzioni, un passaggio importante è stato l’allargamento al livello provinciale, avviato nel 2006: l’iniziativa aveva suscitato l’interesse di altri operatori culturali del territorio provinciale, che si sono appoggiati al Centro Stranieri e al Centro Musica del Comune di Modena, potendo contare sul lavoro di esplorazione già avviato e sulle modalità organizzative costruite nei primi due anni. Centro Stranieri e Centro Musica si sono quindi trovati a coordinare un calendario che ha coperto quasi trenta giorni, nel mese di giugno, con iniziative molto diverse, anche legate ai budget di cui ogni Comune disponeva. Il sostegno provinciale è provenuto dall’Assessorato alle Politiche Sociali, che ha finanziato la comunicazione unitaria del Festival.
Ma ancora più significativo per la realtà modenese è stato l’esperimento che si è realizzato nel 2008, intrecciando la giornata di ModenaMedina al calendario di iniziative di Oltre i Giardini, con uno spettacolo che ha visto suonare insieme i musicisti di origini maghrebina Nour Eddine e Jamal Ouassini, e Banda Larga. In questo caso, la collaborazione si è realizzata con l’agenzia di spettacolo “Sosia e Pistoia”, sempre per iniziativa degli operatori e attraverso contatti personali.
La giornata, che affiancava alle performances musicali anche un laboratorio multiculturale per bambini sul tema del ritratto e una conferenza sul tema “Persone, case, quartieri, città”, ha avuto soprattutto il merito di portare l’esperienza di ModenaMedina - i suoi musicisti, il pubblico immigrato - al centro, almeno per una sera, della “scena ufficiale” della cultura e dell’intrattenimento urbano.
La serata a Oltre i Giardini del 2008 è stata vista dagli operatori come un momento di saldatura molto importante tra il lavoro di ricerca e costruzione che ha fin dall’inizio connotato ModenaMedina, e un modello organizzativo specializzato, che dispone di budgets, strutture e modalità di lavoro che permettono un risultato “spettacolare”. Un passaggio che sembra agli operatori particolarmente importante per fare uscire l’esperienza avviata quattro anni fa dalla nicchia protetta delle attività interculturali, e farla arrivare ad un pubblico più vasto.
La forma dell’evento, in questa ottica, non è fine a se stessa: rappresenta un mezzo per fare uscire dalla marginalità un modo culturale che in città è presente, ma quasi sempre segue percorsi invisibili alla gran parte dei cittadini modenesi. Inoltre, per usare le parole degli operatori, può contribuire a rafforzare una iniziativa che soffre di budgets molto modesti, quasi simbolici, e che non riesce a godere di un appoggio pieno, pro-attivo, del livello politico. Un modo, per usare le parole degli operatori, per “entrare maggiormente nel cono visivo degli assessorati più sofisticati, come quello alla Cultura, o delle Fondazioni”.
La difficoltà di disporre di budget adeguati riflette una resistenza del livello politico a implicarsi a fondo nelle iniziative che mettono al centro la natura multiculturale della città: pare quasi che ci sia l’esigenza di muoversi in sordina, di salire sulla scena ufficiale sempre in punta di piedi. La concreta innovazione rappresentata da ModenaMedina sembra faticare ad uscire allo scoperto, ad essere interamente abbracciata come evento qualificante la vita culturale della città, al di là di ogni separazione.
“Infatti mi ricordo che quando c’è stata una iniziativa al Parco XXII Aprile, c’era l’Assessore Querzè. E le dicevo, pensa negli anni Settanta, il godimento che voi avete avuto a fare le politiche sull’istruzione, tanto che ancora viviamo di luce riflessa. Noi, che probabilmente abbiamo oggi alcuni punti di innovazione vera, una fortuna che ci siamo creati sul campo con degli operatori sono stati bravi e un quadro politico accogliente e vitale, non lo possiamo spendere, perché non possiamo dirlo, praticamente”.
A giocare è certamente un contesto cittadino e politico che resiste all’idea del cambiamento demografico e culturale in corso: sebbene a Modena il 30% delle nascite sia da genitori non nati in Italia e l’immigrazione, a vent’anni dal suo inizio, non possa in nessun modo considerarsi un evento marginale della vita urbana, o forse proprio per questa ragione, la città sembra faticare a leggersi come “plurale”. E questo atteggiamento appare con più forza quando ci si muove sul livello simbolico, che gioca un ruolo centrale nella costruzione di qualsiasi politica culturale.
A Modena le politiche non hanno finora ostacolato la creazione di iniziative come ModenaMedina, e sanno riconoscere e, in certa misura, supportare un prodotto qualitativamente efficace: ma difficilmente, fino ad oggi, hanno saputo coglierne il potenziale non solo sociale, ma anche profondamente inclusivo e culturale, che queste proposte possono esprimere.
Da questo punto di vista, è sembrato più facile stabilire legami con addetti ai lavori del mondo culturale: con la Galleria Mazzoli, come primo esperimento durante il primo anno di attività; con Giovanni Rubbiani, che come musicista ha ritenuto interessante il progetto di Banda Larga; o con “Sosia e Pistoia”, l’Agenzia di Spettacolo ingaggiata dal Comune e dalla Fondazione Cassa di Risparmio per organizzare Oltre i Giardini.
Conclusioni: riflessioni sulle politiche
La nascita e lo sviluppo di ModenaMedina, i modi con cui questo evento è stato costruito, le intenzioni degli operatori che l’hanno promosso e gli adattamenti che ha conosciuto nel tempo spingono ad alcune riflessioni che non riguardano tanto l’organizzazione dell’evento in sé, quanto la relazione tra la crescente pluralità urbana e le scelte culturali della città.
La storia che abbiamo ricostruito è innanzitutto la storia di come è stato inteso il mandato di un ufficio comunale, il Centro Stranieri, e della scelta di lavorare sul campo culturale per dare sostanza al diritto di cittadinanza degli immigrati in città.
Ma è anche la storia di una ricerca di spazio sulla scena ufficiale che non ignora o esalta le differenze, ma che chiede di includerle e trascenderle: da questo punto di vista si spiega il lavoro per trovare linguaggi e forme che consentano di uscire da etichette multiculturali, e la soddisfazione per le occasioni di riconoscimento che sono state conquistate negli anni.
Quello su cui si riflette non è una ulteriore opzione tra le molte immagini che la città può dare di sè all’esterno, in questo caso di “Modena come città multiculturale”; né si intende suggerire che le politiche culturali debbano automaticamente schiacciarsi su una strumentalità inclusiva, sociale (i cui rischi e limiti sono ben esposti in Belfiore, 2002).
Birmingham cosmopolitan
Da questo punto di vista, è interessante il caso della città di Birmingham, che nel 2001 ha lanciato un programma molto esplicito di valorizzazione della diversità culturale come risorsa per la città e come auto-rappresentazione, fondato sullo slogan “Birmingham cosmopolitan”. Allo sforzo hanno contribuito alcuni tra i più noti esponenti del cultural planning britannico (in particolare, l’esperienza è riportata, insieme ad altre, in Bloomfield, Bianchini, 2001). Tale passaggio nasce dalla constatazione che le grandi opere di rigenerazione fisica legate alla cultura avviate già negli anni Settanta, in un contesto di profonda criticità socio-economica, avevano certamente fatto di Birmingham una città più attraente, una destinazione possibile sia per i turisti sia per flussi di investimenti; e avevano contribuito a costruire una nuova immagine della città, quella di una metropoli attraente, competitiva. Ma avevano nello stesso tempo prosciugato fondi e attenzione ad un tessuto sociale che all’inizio degli anni Novanta soffriva di maggiori disuguaglianze, e di più gravi sacche di marginalità, che coincidevano spesso con le popolazioni immigrate. Un processo di esclusione non solo socio-economico, ma anche culturale.
A partire dalla fine degli anni Novanta, un significativo rinnovamento interno del partito laburista induce a rileggere le politiche del passato, e a proporre una nuova stagione di politiche sociali: questo cambiamento diventa manifesto nel 2001, quando si tiene in città una conferenza pubblica in cui si esplicitano i limiti del vecchio corso, sottolineando la storia di “razzismo istituzionalizzato” che le politiche urbane avevano avvallato negli anni precedenti (Sandercock, 2003: 173).
L’iniziativa si traduce in un doppio livello di azione: da un lato, la comunicazione. La città sceglie di appropriarsi di un lessico interculturale, e di riconoscere la diversità culturale come una risorsa per la città, in un’ottica di “accoglienza”, anche attraverso la lettura della diversità culturale in ambito urbano che viene dagli studiosi chiamati a discutere il nuovo corso della città (in particolare, Bloomfield e Bianchini, op.cit.), e che insiste sul concetto di “risorsa”.
Dall’altro, prendono corso iniziative nei quartieri, attraverso il modello dei “community centre”, istituzioni locali di quartiere che traducono in azioni più specifiche i programmi municipali; ma anche attraverso sforzi per ridurre la conflittualità tra i corpi di polizia e le popolazioni “non-british”, per allargare le occasioni di confronto e stabilire ponti tra le diverse comunità attraverso lo sport o le manifestazioni culturali.
Un breve inciso: le profonde divisioni tra “comunità” (termine molto utilizzato nella letteratura anglosassone, e che riflette uno specifico modo di intendere e trattare il multiculturalismo) che caratterizzano Birmingham fino all’inizio di questo decennio insegnano molto della “non naturalità” dei processi di reale costruzione di un nuovo ethos urbano, che ne rispecchi la reale pluralità, soprattutto se si considera la ben più lunga sedimentazione storica dell’immigrazione in questi contesti. Il tempo e la co-abitazione in uno spazio urbano insomma non assicurano l’allargamento di diritti non solo formali di cittadinanza.
E, per certi versi, nemmeno il nuovo corso della programmazione urbana di Birmingham sembra aver incorporato una logica del tutto innovativa: alcune critiche toccano in profondità il modo intendere la diversità culturale nei contesti urbani, e le possibili risposte che di conseguenza vengono date in sede di decisione. In particolare, è stato evidenziato come la prospettiva dell’”accoglienza” e l’insistenza sulla diversità come risorsa per la città riproduca un modello piuttosto vecchio, che finisce per riprodurre la contrapposizione tra un “noi” - autoctoni, tolleranti, in cerca di sviluppo - e un “voi” - stranieri, accolti, che devono dimostrare la loro ragion d’essere in un posto che non gli appartiene per diritto. E questo risulta tanto più incisivo in una città in cui le seconde e terze generazioni hanno ormai legami molto tenui con i Paesi di provenienza dei loro familiari. Questa prospettiva, seppure induca ad alcuni cambiamenti concreti nelle iniziative proposte in città, non sembra segnare un radicale passaggio rispetto all’istituzionalizzazione della superiorità britannica, di cui le politiche inglesi sono state accusate (Chan, 2005).
Come osserva la Sandercock, che ha seguito da vicino il processo e che in buona misura vi è implicata, l’adozione di una prospettiva differente non si è tradotta automaticamente in un sostegno pieno dell’autorità municipale alle forme di innovazione che si sono create entro questo nuovo corso; non consente di poter dire superato un discorso pubblico che divide la popolazione tra indigeni e “outsiders”; non ha indotto, nei fatti, a rivedere integralmente la logica dei grandi interventi, che anzi tendono a riproporsi. Ma, e questo appare significativo, ha consentito ad un tema marginalizzato di essere rimesso al centro dell’agenda urbana, ponendo quanto meno il problema della necessità di un nuovo discorso sull’identità civica, e su cosa significhi essere cittadini di Birmingham. Si è costruito, attraverso una presa in carico del problema da parte di una parte degli esponenti partito politico in carica, lo spazio perché alcuni agenti di innovazione dentro la città potessero sollevare temi e proporre soluzioni entro un contesto politico più pronto ad ascoltarli (Sandercock, op.cit.: 176).
Il caso di Birmingham, di cui si è data un lettura molto rapida mostra la complessità e le ambiguità del trattare la diversità culturale nei contesti urbani, in cui si giocano discorsi ufficiali e resistenze culturali, spinte ad adeguarsi a modelli globali e innovazioni locali.
E, per tornare alla sfera culturale, suggerisce di non guardare alla storia che abbiamo ricostruito come a un’esperienza di immigrazione o di attività multiculturali, ma come come una storia di selezioni, di opportunità, e di come la “cultura pubblica” della città si confronta con il cambiamento.
Potenziali, opportunità, prospettive: una sintesi
Si è detto che la cultura è considerata un potenziale per lo sviluppo, in prima battuta economico, delle città. Un potenziale che ormai non è più latente. La logica però può anche essere rovesciata: che cosa è considerato “potenziale” culturale? La prospettiva è differente, perché viene chiamata in causa la natura conflittuale e selettiva della costruzione della cultura come oggetto di politiche di sviluppo economico. Quindi, ad esempio, la filosofia, o le scienze cognitive, o l’economia sono diventate l’oggetto di festival culturali: questi temi sono stati riconosciuti appunto come potenziali (e non era scontato, anzi, sarebbe stato quasi paradossale fino a pochi anni fa), di attrazione e/o di riflessione, di investimento economico e/o di crescita intellettuale.
Come spiega Donolo (2007: 117) riferendosi al concetto di potenziale e alle strategie per lo sviluppo “... si tratta di capacità, o anche di abilità, che esistono allo stato latente e che spesso sono state coltivate al di fuori di un processo di valorizzazione economica. […] Tutto ciò è la molla verso capacità che si rivelano in pratica solo fino a un certo punto, e precisamente solo fino al punto in cui lo permette la struttura delle opportunità. In caso di ambiente ostile molti di questi presupposti vengono bruciati immediatamente; e non possono facilmente riformarsi.”
L’indagine su ModenaMedina ci restituisce, come abbiamo detto, un intenso lavoro di ricerca di potenziali inesplorati in città, condotto principalmente dal Centro Stranieri e dal Centro Musica, con alcuni collaboratori volontari. E ci riporta anche ad un intenso lavoro di mutuo apprendimento che conduce questi “potenziali” ad una maggiore coscienza di sé, e alla costruzione di un metodo di lavoro condiviso, alla ricerca di una maggiore qualità.
L’effettiva emersione di questo potenziale dipende però dal riconoscimento, o come spiega Donolo, dalla struttura delle opportunità. Il passaggio successivo è quello di chiedersi come si realizzi l’accesso, come si passi dall’essere detentori di un potenziale, all’inserirsi sulla scena culturale pubblica. Occorre far notare, per inciso, che la relazione tra potenziale e quella che chiamiamo sistema delle opportunità può essere bi-direzionale: se l’opportunità è una premessa al realizzarsi di un potenziale, la costruzione di un’offerta culturale può promuovere lo sviluppo e la maturazione di nuovi potenziali, prima non esistenti o immaturi.
Da questo punto di vista, ModenaMedina ha messo in luce il ruolo chiave di alcuni attori interni al settore pubblico, che hanno letteralmente inventato un nuovo spazio sulla scena culturale locale; ma rimane molto più difficoltoso un riconoscimento ampio, includente, e, nel descrivere il sistema culturale modenese nel suo complesso, ModenaMedina rappresenta una storia d’eccezione rispetto a una situazione in cui, come emerso anche nel precedente rapporto, “ognuno costruisce i suoi teatri”.
Infine, lo sguardo al futuro: elemento imprescindibile di ogni strategia, si riaffaccia anche in ambito culturale, e anzi, la sua importanza appare tanto più evidente se si pensa ai tempi necessari perché si sedimentino e diventino patrimonio culturale di un gruppo i prodotti dell’intelletto umano. Ci vuole lungimiranza, insomma, per accumulare capitale simbolico. E altrettanta ne occorre per accettare il rischio inerente l’esperienza culturale, e per accettare di aprire alla pubblica discussione e negoziazione le rappresentazioni che la città dà di sé stessa.
Da questo punto di vista, la città sembra faticare nel farsi carico di questo processo: la condizione di separatezza della vita culturale modenese sembra essere vista in larga misura come una condizione inevitabile, che solo sotto ben precise condizioni, e con molte prudenze, può essere superata.
Un potenziale messo in luce da un lavoro minuzioso e capace di adattamenti progressivi, un sistema di opportunità concreto ma che richiede codici di accesso che probabilmente non rispecchiano più la realtà plurale della città, una capacità di visione del futuro ancora faticosa, e poco coraggiosa: questo può essere un quadro riassuntivo della situazione della sfera culturale modenese che si confronta con la diversità.