Il racconto di Germano Bulgarelli
Nel corso della ricerca sul campo della cultura a Modena abbiamo incontrato Germano Bulgarelli. Al termine del suo racconto, che ora pubblichiamo integralmente, il gruppo di lavoro coordinato da Andrea Borsari gli ha rivolto alcune domande. Eccole.
Quando Triva diventò sindaco, diventai assessore all’Istruzione e Cultura e mi capitò una cosa molto impegnativa, perché nel 1963 fu istitutita la scuola media unica. A Modena avevamo due sole scuole medie: le Carducci e le Paoli. Le altre erano scuole d’avviamento professionale. Allora già lì mi capitò il primo scontro ideologico, cioè: siccome tutti volevano andare alle Carducci o alle Paoli, noi stabilimmo di territorializzare la cosa. Mi ricordo che ci andai anchio, con una grande carta con Anna Maria Croce, una dirigente che può raccontarvi molte cose della cultura, e lì ci fu la grossa obiezione dell’“Avvenire d’Italia”, che diceva che questa era una limitazione della libertà di scelta. Venne un ispettore da Roma, ma alla fine tutto rimase così. Questo però è il meno: il più era realizzare le altre scuole. Abbiamo utilizzato edifici impensabili: le Foscolo erano un mulino, le scuole appena oltre il cavalcavia erano una conceria pellami. Insomma, fu un grosso impegno. Contemporaneamente un altro grosso impegno è stata l’apertura delle scuole dell’infanzia. Anche in questo caso avevamo due sole scuole: la Pestalozzi e la Matteotti, due scuole che l’UDI, Unione Donne Italiane, aveva aperto spontaneamente dopo la guerra e che nel 1960 non riusciva più a portare avanti per problemi finanziari. Non c’era personale. Mentre le maestre erano disoccupate, le insegnanti delle scuole dell’infanzia provenivano tutte dalle domenicane. Organizzammo un corso per fare in modo che le nostre ragazze andassero a dare l’esame a Rovereto: lì c’era l’unica scuola pubblica non statale, delle pochissime esistenti. Vi dico questo perché si trattò di un processo di formazione culturale per 30-40-50 ragazze, e poi fu un processo di formazione relativo alle questioni della crescita e dell’apprendimento dei ragazzi dai 3 ai 6 anni che investì tutta la popolazione. A mio parere questo settore è stato il settore in cui l’acculturazione ha avuto il maggiore spettro, la maggiore dimensione: era una cosa di massa, c’erano le riunioni una volta alla settimana, tutti i genitori con gli insegnanti.
Poi c’è la cultura: il settore delle attività culturali propriamente dette. Dobbiamo premettere che quelle per le attività culturali erano spese facoltative. Fino al 1970 le spese facoltative potevano essere sostenute solo da chi aveva i bilanci in pareggio, cioè nessuno. Era un settore fortemente limitato. In sostanza fra le attività c’era il Teatro Comunale che funzionava abbastanza bene. Noi ci siamo sempre sforzati soprattutto di creare o di partecipare a delle organizzazioni in rete. Mi spiego: costituimmo l’ATER, cioè l’Associazione dei Teatri Emiliani, per la prosa c’era l’ATI, l’Associazione dei Teatri “normali” che naturalmente ammanniva quel che doveva, e il mercato doveva prendere quel che veniva offerto. Mentre invece con l’ATER, a cui partecipavano tutti i teatri dell’Emilia Romagna (i primi promotori furono Bologna e Modena, poi, successivamente, Reggio, che si distinguva in particolare per il balletto) iniziammo ad avere sia produzioni proprie sia la capacità di scelta anche dal mercato di altre opere, perchè eravamo in grado di commissionare venti o trenta rappresentazioni. Abbiamo sempre tentato fin dall’inizio di essere soprattutto organizzatori. Esisteva ancora, però, per opera quasi personale di Triva, vorrei dire, che era vicepresidente della Provincia e Consigliere comunale, la Sala della cultura con le sue mostre, che non erano di alto livello, perchè il mondo artistico è un mondo fatto di rapporti personali e di collegamenti personali e allora o eri presente su tutto oppure… Ne ricordo una, che ebbe un grande successo: la mostra degli artisti di Corrente. Corrente faceva capo a questa piccola pubblicazione. Era gestita da Treccani, il figlio del milionario, e la mostra fu molto importante perché comprendeva la Crocifissione di Guttuso che era stata premiata al premio Bergamo nel 1942 e che era un segnale molto forte di rottura con la cultura di allora e di affermazione di un realismo che aveva in quel momento un significato non solo culturale, ma anche politico.
E poi non avevamo biblioteche. Il comune di Modena non aveva una biblioteca. Anche in questo caso dobbiamo ricordare una grande intuizione di Rubes Triva, anche questa connotata nell’ottica della diffusione della cultura: organizzammo il Festival del libro economico. C’era un giornalista della Gazzetta che disse: “Ma non le sembra, signor Sindaco, che sia molto difficile fare un festival su dei libri di economia… E’ una materia un po’ ostica…”. Fu una cosa splendida, e questo segna la differenza con Mantova di oggi o altre iniziative analoghe. Facevamo dei banchetti e avevamo un po’ di nostri funzionari e un po’ di volontari e di volontarie al Palazzo dei Musei. Venivano tutti gli editori. Il primo anno facemmo il primo Catalogo del libro economico. Il catalogo lo curarono gratuitamente Heiri Steiner, che era un grande grafico e, l’anno successivo, un altro grande grafico, Munari. Detto per inciso, non ci è rimasto nulla. Ritengo che si trattò di un grande contributo. Ricordo ancora che il secondo anno del mio Assessorato organizzammo un convegno al quale parteciparono Feltrinelli e Arnoldo Mondadori. Parlavamo della diffusione del libro al di fuori della libreria, nelle stazioni ferroviarie, nelle biblioteche scolastiche: approfondivamo, noi e i tecnici, i settori attraverso i quali veicolare i libri verso un pubblico più ampio, sia in termini commerciali che in termini di biblioteca. Vennero Calvino, Chiara, venne il filosofo Paolo Rossi e molti altri. Portammo qualcuno anche in fabbrica, cosa che forse fu un po’ esagerata, ma c’era un grandissimo fermento e una grande partecipazione di modenesi. Ma continuavamo a non avere biblioteche. Allora organizzammo le Settimane delle case editrici: a cadenza mensile o bimestrale organizzavamo qualcosa alla Sala della cultura e in quell’occasione non solo venivano messi a disposizione dei libri, ma partecipavano anche gli autori. E insieme ai Quartieri riuscimmo ad aprire le biblioteche in tutti i quartieri. Non avevamo ancora la biblioteca centrale, ma cominciammo dai quartieri. Nacque nel 1966 e fu una cosa molto bella e sfociò in quel bouquet di fiori che è la Biblioteca Civica di ora. Fu una grande cosa, come lo furono le scuole per l’infanzia. Erano attività che proprio per il modo in cui erano nate avevano delle componenti di missionarismo, però credo che abbiano lasciato un grosso segno.
Nel frattempo diventai sindaco e pensai che dovevamo individuare un modello organizzativo, non continuare a sperimentare. Avevamo Malaguzzi come consulente e una ventina di scuole per l’infanzia e io dissi: “A questo punto ne prendi tre e lì sperimenta quello che vuoi, ma non puoi mettere l’atelierista, non puoi mettere l’addetta alla cucina in più, perchè è importante che i bambini vedano come si fa, come si cucina il cibo, la funzione del cibo, la manipolazione delle materie”. Poi, da riformista anche allora, volevo una cosa che si potesse estendere in tutta Italia, no? Non che si agitasse la delibera dicendo “Ecco, a Modena fanno così”, ma qualcosa di più. Dopo Malaguzzi tornò a Reggio, che ancora oggi è unica, un punto di eccellenza mondiale, il mio obiettivo era più basso. Forse noi siamo più strutturalisti in termini generali, come modalità di approccio al problema e di soluzione del problema: non puntiamo all’exploit, puntiamo al modello che funzioni. Questo vale in vari campi fra cui anche l’urbanistica: anche quella è stata una colossale formazione non di massa, ma di tutti i quadri tecnici e politici sul problema dell’organizzazione del territorio e del rapporto fra territorio, servizi e popolazione. Quella era proprio una totale carenza nostra. Noi eravamo fermi a un Piano Regolatore mai approvato che ipotizzava 500.000 abitanti – non ci si ricorda nemmeno il periodo, perché ci furono due o tre contestazioni - e si basava sul concetto della domanda e dell’offerta sul territorio, cioè: più territorio offro, meno costa. Che non solo non è vero, ma funzionava così: più territorio offrivamo, più costava in termini di adeguamento dei servizi, perché i servizi sorgevano spontaneamente e senza nessuna legge, se non quella del l942. Ecco, quella fu una grande manovra che facemmo con una maturazione accelerata. Poi la correggemmo, perchè gli standard li prendevamo, noi come i nostri architetti, da un libro di Emilio Calzolari che si basava sugli esempi della Svezia e dell’Olanda, e infatti dopo 7 o 8 anni che facemmo la prima variante del piano regolatore tarammo gli standard sulla base di quelle che avvertivamo essere le necessità in confronto a quelli che erano numeri. Però non erano solo dei numeri, erano dei simbolini che bloccavano l’area dei servizi. Questo è stato un grosso processo culturale perché – tra l’altro molto spregiudicatamente – nel 1967 adottammo il famoso PEEP, Piano per l’Edilizia Economica Popolare, la legge 167, che consentiva procedure più brevi. Massimizzammo il PEEP soprattutto in tutte le aree topiche e intanto facevamo il Piano Regolatore, che comportava più sforzo, più impegno. Infatti un anno dopo adottammo il Piano Regolatore: la cosa suscitò tanto di quel clamore che Triva e io andammo a finire sotto processo perché avevamo messo il PEEP anche sui centri direzionali. Ecco, tanto per dire. Da lì poi nacque il piano per la viabilità provinciale, cioè relativo al territorio prima comunale poi comprensoriale, e tra l’altro nacque anche un’intesa profonda fra noi e la DC di allora a Modena che, con quel libro di cui fu artefice Gorrieri, “Prospettive modenesi”, individuava, soprattutto a livello delle infrastrutture e dei rapporti fra infrastrutture e territorio, le potenzialità che gli enti locali potevano avere ed esercitare. Noi come comunisti eravamo un po’ più indietro per due motivi: intanto loro avevano un’esigenza maggiore perchè avevano i loro centri in montagna e a San Felice, nelle due estremità, perciò avevano l’esigenza di avere un’intelaiautra sulla quale porre anche i loro punti di forza, come ad esempio il problema del turismo nell’Appennino che a noi non interessava più di tanto. Noi avevamo una concezione dell’industria intesa come industria media, robusta, e ironizzavamo dicendo “la fabbrichetta sotto il campanile” in contraddizione poi con il nostro stesso modo di agire, perchè il quartiere Modena Ovest era stato fatto dalla prima amministrazione, dall’amministrazione Corassori, negli anni ’50. Però fondamentalmente c’è che questi democristiani di sinistra cercavano di tradurre anche su questo territorio le aspettative del centrosinistra, del primo centrosinistra, e noi viceversa: contestavamo il centrosinistra e tendevamo a sottovalutarle. Devo dire che abbiamo recuperato molto velocemente, soprattutto attraverso gli enti locali. Questo fu un processo dal grande contenuto culturale.
Andrea Borsari: Vorrei che considerassimo l’Assessorato alla Cultura. Prima c’è un Assessorato tripartito: scuola, cultura, sport. Poi a un certo momento l’amministrazione nel 1972, una data centrale come lei sa, decide di smembrare questa situazione dell’assessorato tripartito.
Sì, abbiamo tolto lo sport e abbiamo mantenuto le due divisioni perchè fu un grande fatto culturale anche la generalizzazione della scuola media unica. Avevamo una concezione molto ampia dei processi culturali. C’è stata un’esplosione maggiore nel settore scuola che nel settore cultura, ma erano settori che non potevano più essere gestiti nello stesso modo. Lo sport invece ha un valore trascurabile dal punto di vista dell’essenza politica del discorso.
Cesare Malagoli: Mi sembra ci sia continuità nel passaggio Corassori-Triva e anche in parte nel passaggio Triva-Bulgarelli.
Triva-Bulgarelli mi sembra quasi identico, Corassori-Triva è un po’ diverso: alla fine degli anni sessanta praticamente cambiarono i tre quarti della giunta, e si cambiò anche sulla base di una valutazione politica: le prime giunte erano state formidabili, ma il problema vero era la ricostruzione. Non solo: venivano realizzate opere che ancora adesso sono dei monumenti, perché il Mercato Bestiame di Modena – che ora sarà un ex monumento – era bello dal punto di vista architettonico, e poi era l’intuizione di collocare un’infrastruttura economica nel cuore della Valle Padana, nel cuore del territorio dell’agricoltura e del bestiame: subito di là a Castelfranco comincia la frutta. Il mercato di Modena è sempre stato il mercato più importante d’Italia, e anche d’Europa per un periodo, era il listino di Modena che faceva testo sul costo delle carni, e poi Modena Ovest, anche quello. Però si erano molto esauriti. Infatti Pucci, che ha partecipato al gruppo di Rogers, vincitore del concorso per il Piano Regolatore di Milano, veniva dalla guerra e aveva ancora l’illusione della provvigione di massa, della provvigione larga, per potere poi abbassare i prezzi. Ma i prezzi li abbassi se vai a comperare le aree o se minacci l’esproprio. Il nostro patrimonio di aree erano il cimitero di San Cataldo, la striscia fra le due strade dove c’erano le mura di Modena e quel pezzo dei Giardini Pubblici che si era salvato (l’Accademia ne aveva già preso un pezzo), per cui nel giro di un decennio abbiamo manovrato milioni di metri quadrati di aree. Eravamo la più grande immobiliare che esistesse e anche lì praticamente avremo espropriato il 10 per cento: lo minacciavamo e facevamo vedere che eravamo pronti a farlo.
Andrea Borsari: C’era un’idea, dare la casa alle persone.
Ci sono delle cose che quando le ho imparate hanno meravigliato anche me che ho 50 anni in più di voi e che ero amministratore negli anni sessanta. Vi posso dire, ad esempio, che a Modena nel 1947-1948 si fece una lotteria che aveva come premio un appartamento… Considerate che negli anni sessanta c’è un triplice movimento di popolazione: dal centro storico escono 10000 persone, dalle campagne ne entrano 10000, da fuori dall’area del comune ne arrivano 20000. Noi abbiamo dovuto organizzare una città con 130000 abitanti, mentre invece fino al 1951 erano 115000. Insomma, abbiamo dovuto gestire il raddoppio della città nel giro di vent’anni. Decine e decine di km di canali che costeggiavano le strade... Lavoravamo con la febbre, ecco. Fu splendido.
Daniela Betti: Tornando però al campo che ci interessa, quello della cultura, dalle carte pare di vedere anche una crescita notevolissima in proporzione al resto della macchina comunale proprio negli anni settanta, negli anni in cui lei è stato sindaco, sia in termini di personale, sia in termini di investimenti (le biblioteche che crescono). Nel giro di pochissimi anni, cioè, la spesa per la cultura, se abbiamo letto bene anche i dati economici, è dopo i servizi sociali quella che in proporzione cresce di più.
Mi sono scordato il tempo pieno. Infanzia, generalizzazione dell’obbligo e tempo pieno erano le priorità.
Daniela Betti: I dati ci dicono che l’istruzione, che all’inizio ha avuto questa grande esplosione, poi si è assestata. Invece la cultura negli anni settanta ha un trend di crescita più alto e occupa una grandissima fetta delle risorse comunali. Quali condizioni - che sono condizioni straordinarie - hanno permesso questo? Con tutte le necessità che aveva la giunta (la questione del raddoppio della città in vent’anni), ci sono stati contrasti? E’ stato così pacifico che la cultura si accaparrasse queste somme o no?
C’è una considerazione d’obbligo: dal ‘70 in poi le spese per la cultura non sono più facoltative. Così si è esapansa la possibilità finanziaria e, in parallelo, anche la nostra predisposizione per istruzione, cultura e formazione dei cittadini. Non ha avuto nessuna motivazione particolare e politica se non proprio la rottura di un limite di ordine finanziario. E la crescita di un settore come quello culturale non è solo quantitativa, ma ha una sua qualità e perciò ha bisogno di una sua maturazione anche interna alla parte dei promotori. Per fare le strade non è sufficiente avere i soldi e il terreno, e per fare attività culturali ci vogliono operatori culturali, che non si possono improvvisare al momento. Questo è stato il processo. Non è stato il risultato di una specifica decisione: la decisione c’era anche prima. Dal punto di vista politico c’era continuità. Vorrei citare anche l’esempio del cinema. Io canzonavo sempre questi giovanotti. Si erano messi a fare mostre di pittura un po’ così e io dissi: “Sentite ragazzi, andate a Ferrara a vedere le mostre, Ferrara è a trenta chilometri di distanza, ed è anche piu bella di Modena, e poi infilatevi su questo settore del cinema”, che allora era carente, perché c’era solo il Festival di Porretta. E a Modena si fecero cose fatte bene. Io sono stato fondatore di due circoli di cinema, con relativa “Corazzata Potemkin”. Sono andato fino a Odessa a vedere la scalinata, ma non apposta.
E i soldi erano quelli che erano…
Spero non sia troppo ingeneroso fare un confronto tra ciò che succedeva allora a Modena e ciò che succede adesso a Mantova. Perché a Mantova fanno una cosa analoga, che non è la stessa cosa, ma è sempre un incontro con i lettori. Sono formule, diciamo, sono dei format. Si cerca di individuare la soluzione che attiri di più la gente. A Torino ad esempio c’è la Fiera del libro. Fra l’altro io credo che uno dei difetti dell’editoria italiana sia quello di pubblicare troppi libri: le librerie sembrano magazzini e supermercati. E così la manifestazione di Mantova, come una serie di altre manifestazioni, è ormai un meccanismo di valoriazzazione turistica e culturale tout-court. Ho letto di personaggi che organizzano e guadagnano anche molti soldi, come nel caso di Brescia.
Andrea Borsari: Ma un ruolo determinante oggi è quello dei privati: suppongo che allora non fosse così. Non c’erano altri interlocutori, battitori liberi, intellettuali che avevano un ruolo nelle politiche culturali, o editori, al di fuori dalla filiera comunale?
Gli editori correvano in una città come Modena che, in fin dei conti, non era la capitale, ma loro stessi erano interessati a cercare strade nuove. Armenia era un dipendente comunale che poi diede le dimissioni, poi è stato direttore generale dell’Italturist. Era un ragazzo molto intelligente.
Daniela Betti: Lei ha messo in relazione la nascita delle biblioteche con il festival del libro economico – e viceversa. Quindi possiamo dire che dal Festival del libro economico nascono i servizi che prima non esistevano - parliamo del campo della cultura - però ne esistevano altri che erano gli istituti culturali e alla fine del mandato è un buco che ha lasciato. Questa dialettica fra “figli poco considerati” e “figli nuovi molto amati” c’è stata?
Il problema era che erano strutture ferme da non so quanto, ma quando io andavo a vedere il Museo del Risorgimento con le camicie rosse con il buco della ferita, era roba che era museificata lì da decenni. Tenete conto che, ad esempio, avemmo una grossa polemica a livello ministeriale e nazionale, e noi eravamo in testa, perché una legge stabiliva che il direttore della biblioteca doveva essere laureato. Cercavano di metterti i bastoni fra le ruote e allora noi a dire: “Quindi Benedetto Croce non avrebbe potuto essere a capo di una biblioteca perché non era laureato”. Il nostro obiettivo non era Mantova, non era un’operazione turistica, ma era legato al decentramento. Quanto agli istituti, si trattava di andare a togliere la polvere, servivano specialisti o comunque degli appassionati. Forse anche fra i dirigenti c’era una predilezione per le forme che avevano una maggiore esteriorità. Ve ne ho accennato prima: quando riesci a sfondare una porta, poi dilaghi, ma devi stare attento! Anche se è naturale che quando sfondi, il più è sfondare. Io avevo due persone brave, però una volta uno mi è andato a spendere 3 o 4 milioni per un quadro di Ligabue. Un buon investimento, ma insomma, dov’è l’inizio e dov’è la fine di questo discorso?
Cinzia Pollicelli: Fra i punti di forza di questa politica dei servizi che stiamo descrivendo ci sono almeno due elementi: da una parte il sostegno dei cittadini attraverso gli istituti di partecipazione, dall’altra una forte identificazione dei funzionari nelle scelte politiche degli amministratori. Il triangolo amministratori-cittadini-funzionari era forte, coeso: presumo che questa coesione abbia permesso di superare anche momenti difficili. Le pare che questo “patto” si sia inceppato da qualche parte? Quello con i cittadini riguarda la crisi, successiva, della politica. Ma prendiamo quello con i funzionari. L’impressione è che oggi abbiano la sensazione di contare meno nelle decisioni che riguardano il loro ambito di lavoro, mentre la stagione che stiamo raccontando mi pare che rappresenti un momento di fortissima identificazione. È così?
Sì, è così. Io ho avuto la fortuna di fare praticamente l’amministratore dal 1960 al 1980, salvo i 2 anni che passai in Regione, e poi sono tornato indietro, a fare il Sindaco. Era terribilmente faticoso, ma appagante. Era una crescita. E quando cresci hai l’entusiamo, e l’entusiasmo si propaga perché dal niente diventa una cosa piccola e poi più grossa. Il nostro merito è di avere costruito questa rete di scuole dell’infanzia e quartieri che consentiva la comunicazione. C’è tutto il capitolo relativo alle scuole materne: i democristiani non le volevano, ogni volta che volevamo fare una scuola dell’infanzia loro dicevano che c’erano le scuole delle suore o del parroco di fianco. Io trassi la conclusione che fossero più realisti del Re. Andai a parlare con l’Arcivescovo di allora, monsignor Amici. Ricordo che prima discutemmo molto io e Rubes. Mi disse Rubes: “Ci vado io, perché se ci vai tu che sei il Sindaco e dice di no, è fatta. Se ci vado io, poi tu dopo puoi rimediare”. E invece ci spalancò la porta. Aprivamo scuole dell’infanzia in posti impossibili, anche in appartamenti. In via Zamenhof abbiamo aperto in un garage però nel giro di 3 anni potemmo fare una scuola. Avevamo previsto l’area, e lo abbiamo fatto con i cittadini. Quando abbiamo discusso il Piano Regolatore quartiere per quartiere la gente sapeva cosa sarebbe sorto su ogni pezzo di terra: cioè, curavamo sempre l’intreccio, perché la gente ci sta quando capisce che conta, perché altrimenti se deve solo decidere, la seconda volta si stanca. Devo aggiungere che c’è una profonda differenza rispetto alle tematiche attuali, ad esempio i problemi della droga. Noi avevamo a che fare con una maggiore materialità delle cose, e la faccenda era più facile. Eravamo fortemente sotto sforzo da un punto di vista anche quantitativo per cercare di mantenere un livello qualitativo. Però insomma, c’era la visione, vedevi la cosa, e da questo punto di vista il funzionario si tirava il collo per fare la collocazione delle strade, andava a a casa alle nove di sera ma era contento, mica tutte le sere, però per quella volta lì si sentiva gratificato anche lui, ecco.
Fausto Ferri: Avrei un milione di domande. Alcune sono dei piccoli fatti. L’altra era più sistematica e riguarda l’inizio degli anni sessanta, quando furono affidati gli incarichi a quelle persone che spesero milioni e alla fine tirarono un po’ la corda: come avvenne questa scelta? E come avvenne la scelta di dare delle direzioni stabili agli istituti culturali e soprattutto quella di separare il museo civico in due parti? L’altra domanda invece si riferisce alla metà del suo periodo da amministratore, gli anni settanta, e riguarda il concorso per il cimitero di Modena vinto da Aldo Rossi. Volevo sapere se questa cosa è stata subita, condivisa, condivisa poi discussa?
Tra i vari concorrenti c’era anche quello che aveva proposto il cadaverodotto: tu spingevi un bottone e… Stiamo parlando dell’inizio degli anni settanta: questo progetto anticipava internet, anzi lo materializzava. Non era il mondo virtuale, era il mondo virtuale reale. Quando ci sono questi concorsi ci sono dei giochi di squadra, si muovono tutti. Io credo di essere stato l’unico componente interno, o forse c’era un ingegnere capo. gli altri erano tutti professori o professoroni, e devo dire che a me Aldo Rossi piacque. Dovete sapere che avevamo già avuto un rapporto con Aldo Rossi che poi fu lasciato a metà: in via San Faustino, dove ora ci sono case di una cooperativa fatte a quadrato con dentro un grande giardino, “Forte Alamo”. Fu l’esecuzione, fatta da nostri architetti, di un’impostazione di PEEP che andava fino a via Schiocchi. Poi non se ne fece altro perché non riuscivamo ad avere le aree in quell’epoca, ma mi piacque. L’impostazione di quel pezzo d’area l’aveva disegnata Aldo Rossi alla fine degli anni sessanta. Devo anche dirvi che quando morì l’architetto Pucci io ero in ferie a Otranto. Arrivarono i carabinieri, presi un vagone letto e mi vennero a prendere la mattina presto e mi fecero fare il giro da San Cataldo. Quando vidi metà dell’edificio rimasi un po’ turbato, però era Aldo Rossi. Io ho pensato che rispetto a un cimitero ottocentesco c’erano due possibilità (ma adesso stiamo parlando in modo estetico): o simulavi un classico oppure rompevi con una cosa che aveva una sua caratteristica. In termini generali io sono per l’innesto del nuovo nel contesto storico. Secondo me il problema è come lo fai, ma quando Le Corbusier progetta l’ospedale in Canal Grande a Venezia penso che avrà bene il diritto anche un grande di oggi di lasciare il suo segno! Altrimenti fai opere come la Cassa di Risparmio.
Ma in giunta come passò questa cosa?
La giunta non se ne interessò nemmeno. Litigammo un po’ in commissione e poi arrivavano anche delle telefonate. Io intendevo valorizzare questa cosa, ad esempio portammo la grande statua di Pomodoro al cimitero. Ma permettetemi una parentesi. Avevo poco più di vent’anni e diventai assessore a Carpi nel 1956 e il Sindaco, Bruno Losi, in occasione dell’insediamento della Giunta mi disse: “Dai, vieni con me”. Andammo in una frazione di Carpi, a Budrione, perché dovevamo discutere in merito a un incrocio con una siepe alta. Poi mi portò al cimitero di Carpi che era un gioiello, e lì mi spiegò la sua teoria sull’onore ai defunti. Mi portò al Centro Anziani nel castello e lì mi spiegò questo valore. Questa cosa mi è rimasta impressa. Il cimitero di Carpi è un gioiello, il culto dei morti ha una sua importanza. La nostra civiltà tende ad abbandonarli: non si può nemmeno fare un corteo, perché disturbi il traffico. Bisogna andare via alla svelta. È una società liquida, come dice Bauman, in cui c’è posto per il presente, ma non c’è posto per il passato e nemmeno per il futuro.
Per quanto riguarda la prima domanda, sulla scelta dei direttori e sulla divisione in due parti del Museo, la divisione c’era già naturalmente con questi due professori. E’ stata una scelta funzionale. Funzionale alle persone che avevo a disposizione.
Ivano Gorzanelli: Mi ha colpito un’espressione che lei ha usato. Ha detto che c’era una maggiore visione, ha parlato di un entusiasmo, del legame colto anche da Cinzia fra funzionari, città, amministrazione. Mi pare che questo modello, questa attività, siano legati all’immagine di una città che cresce. La difficoltà di una riproposizione di un’espansione di una forza a livello culturale sta anche, forse, nel non poter più percepire a livello di riferimento urbanistico l’idea di una città che cresce. Ad esempio dal punto di vista urbanistico si è costretti a un lavoro molto localizzato che riqualifica, che pasticcia un po’.
Diciamo che pasticcia un po’.
Lei ha lavorato di sicuro anche con Famigli che ha riproposto il modello di una scolarizzazione che però era un vero lavoro culturale sul tema dell’ambiente creando una rete di Centri di Educazione ambientale. Oggi, penso, si fa fatica a cogliere il valore aggiunto di una cultura ambientale, e addirittura si fa molta fatica a dare leggibilità a quel tipo di strumento, il centro di educazione ambientale.
Sì, oggi le problematiche hanno origini molto più ampie: la globalizzazione, i modelli di vita. E riuscire a realizzare un servizio per la piccola impresa meccanica in grado di collegarsi con l’università o di entrare nel mercato russo o cinese poi è più difficile di quanto fu costruire il villaggio artigiano. Il villaggio artigiano era la materializzazione di una serie di fatti che erano in nostro potenziale possesso. Poi tante amministrazioni non l’hanno fatto, ma potenzialmente c’era la terra. Questo è vero, questo conta. Sono cose più difficili. Io sono stato fortunato a fare l’amministratore in un periodo particolarmente felice dell’amministrazione.
Andrea Borsari: Qualche ombra della crisi economica c’era già.
Sì, ma non... Quando ci fu la crisi della Maserati e i Francesi se ne andarono di notte - avevano fatto una macchina che sembrava la macchina di Gordon - noi facemmo fatica a tenere gli operai dentro alla fabbrica. Era il 1975, li dovevamo tenere chiusi nei cancelli, perché a me interessava riuscire a mantenere il nome. Non era un problema di occupazione. Tant’è che ci fu un cugino di mia moglie che mi disse: “Caro Germano, io ti saluto e me ne vado” e andò a fare il misuratore alla Tetra Pak. Ecco, il problema della crisi non è mai stato di crisi economica, ma sociale. Perché quando la Corni va in crisi i fornitori, tutti meridionali, non hanno la rete di protezione familiare che potevano avere gli operai della Maserati, che stavano a spasso una settimana e che se anche fossero stati a casa per due-tre mesi avevano comunque i parenti.
E i bilanci comunali?
Subivamo molto questa discrasia fra costrizioni di Bilancio e città, mentre in realtà il bilancio doveva espandersi come si espandeva la città, anzi, doveva espandersi due dita in più. Questo lo subimmo, ma fummo anche bravi. Quel diavolo del Resto del Carlino scrisse che il Sindaco falsificava i bilanci, e per metà era vero. Perché in sede di bilancio preventivo io sottostimavo le entrate. E poi allora si andava alla Commissione Centrale per la Finanza locale: pochissimi sindaci andavano a discutere, io invece ci andavo e li schiacciavo perché ero in grado di dire che un metro quadrato di asfaltatura costava un certo prezzo eccetera. Si sentivano da un lato schiacciati e dall’altro onorati perché il Sindaco di una città media andava a parlare con loro. Sì, sono riuscito a portare a casa qualcosa in questo modo.
C’è stato un momento in cui non è piu stato possibile fare questo?
Sì, dopo di me, negli anni ottanta. Anche in questo caso vi devo dire che Triva diede una grossa mano, allora era deputato. C’erano quei famosi Decreti che accompagnavano la legge di bilancio, il decreto Pandolfi, il decreto Stammati, e Triva li abbindolava come io abbindolavo (anche se non è il termine corretto) la Commissione Centrale per la Finanza locale: eravamo in grado di spiegare le nostre ragioni in un certo modo e con una certa coscienza tecnica. Quando arrivi a un certo livello c’è poco da fare, non puoi fare la mozione degli affetti: devi proporre formule.
Come ha inciso la nascita delle regioni su questo percorso di espansione, di crescita? Ha favorito il piano finanziario, ha irrigidito dei percorsi?
Io non dò un grande giudizio della mia esperienza in Regione. Ero convinto che si riuscisse a fare quello che facevi a Modena a livello di Emilia Romagna. Ma non era così, eravamo fuori categoria, e la regione si è molto “sfilata”, ecco. Fin dall’inizio. In un primo tempo la Regione – questa fu la caratteristica della giunta Fanti – parlò con Roma. L’obiettivo era Roma. Fanti non utilizzava la forza dell’insieme delle realtà regionali, ma voleva diventare ministro, e quella non era l’epoca, perché quando nacquero le regioni ci fu un rinculo di ordine politico non tanto dovuto all’istituzione delle regioni stesse, ma dal famoso governo Andreotti-Malagoli, che politicamente fu un arretramento. La Regione non ha dato un grande contributo. Avendo svolto tutti e due i ruoli, credo di sapere le derive che hanno preso i Comuni e le Regioni. Per un altro verso secondo me negli anni settanta era possibile unificare e generalizzare certi processi da parte della Regione. Io mi ricordo che ero Assessore alla Sanità, ed ero curioso, perché non lo avevo mai fatto. Vi faccio un esempio di quali erano i miei obiettivi. Dicono che il fluoro fa bene i denti? Bene: diamo una caramella al fluoro, l’importante è che la si dia da Piacenza a Rimini. Gli anni settanta erano gli anni in cui i comuni tiravano ancora e rafforzavano la loro autonomia anche a livello di campanile. Tornai in Regione e fui Assessore alla Programmazione. Il comune di Reggio fece un’ipotesi di Tangenziale che era smisurata e io dissi di no. Avevamo una certa somma dell’ANAS a disposizione e io dicevo: “Se hai fatto 10 km in più e io ho uno che forse ha bisogno più di te di altri 10 km di strada, non sono in grado di darglieli”. Ci fu uno scontro addirittura a livello politico sulla base del “come ti permetti”. Questo significa che i Comuni erano in forte crescita e la Regione perdeva opportunità che invece negli anni settanta, con una struttura partitica ancora molto forte, era possibile portare avanti. Ad esempio io concepivo un piano che si riassumeva nella formula del sistema metropolitano concentrico. Partivo da una considerazione semplice, anche se l’elaborazione era complessa. È un dato della storia, non è merito nostro se abbiamo infilato 8 province a distanza di 30 km l’una dall’altra. E’ possibile realizzare dei servizi di una città metropolitana con i vantaggi di una dimensione diversa. Però poi a questo punto non puoi fare un aeroporto in ogni comune. Ricordo che quando ero sindaco pensavo a una Fiera, fra l’altro avevamo l’area. Ma una sera a cena con Turci, che era presidente della Regione, e il Presidente della Fiera di Bologna, Turci mi convinse che una Fiera è una cosa colossale, tant’è che la fiera di Bologna è piccola anch’essa adesso rispetto a delle dimensioni europee (che dovrebbero essere il nostro target). Parma va a fare un aeroporto, ma per fare un aeroporto non c’è mica bisogno di avere il terreno e nemmeno degli aeroplani, ma di passeggeri. Se hai i passeggeri trovi il terreno e gli aeroplani, se no... Puoi avere il Campo Volo di Reggio Emilia, ma se non hai chi lo utilizza… Adesso la Regione vuole occuparsi meglio di questa cosa, e deve andare a comprare la maggioranza del pacchetto azionario dell’aeroporto di Parma che però vale poco, anzi, non vale. Il punto era trovare delle politiche che valorizzassero ogni città con le sue prerogative, tradizioni, specializzazioni. Infatti valorizzammo la fiera di Parma come Fiera alimentare tramite una formula utilizzata a livello nazionale. Mettemmo i soldi a concorso inventando una formula utilizzata a livello nazionale: chi ha le idee migliori? Sul piano del rapporto fra i Comuni e la Regione abbiamo perso il treno, ma dal punto di vista dei grandi servizi, la Regione ha fatto molto, ad esempio per la sanità e l’assetto idrogeologico del territorio.
C’erano distinzioni fra gli amministratori e la sfera del PCI?
All’esterno si era convinti che il PCI comandasse, ma i Comuni hanno sempre avuto un’altissima autonomia. Devo dire che non sono in grado, perchè non sarebbe vero, di nascondere uno dei miei errori adducendo come causa il PCI: si discuteva a fondo, ma avevamo una grande autonomia come amministratori, come tutte le amministrazioni. Questo discorso è anche facilitato perché negli anni sessanta e settanta dovevi costruire le cose. La parola d’ordine era, ad esempio, “generalizzazione ed estensione delle scuole dell’infanzia”? Bene, erano tre parole, e poi ognuno faceva quel che poteva.
Ma rispetto a questi temi, facendo una comparazione con l’attualità, trova che le difficoltà delle politiche culturali attuali in una città come Modena siano piu di ordine tecnico, economico o nel merito delle politiche stesse?
Io non ho tutti gli elementi. È la crisi politica intesa non come politica culturale, ma come rappresentanze politiche, cioè istanze dei partiti. Noi avevamo una grande autonomia, ma quando andavamo a raccontare l’impostazione del nostro bilancio al partito, sapevamo di avere dietro alla schiena non solo 26-27 consiglieri, ma alcune centinaia di migliaia di persone. Adesso il vostro sindaco non sa se ha dietro alcune centinaia di migliaia di persone.
Cinzia Pollicelli: Lei ci ha descritto in maniera esauriente le circostanze economiche entro cui la politica dei servizi si sviluppò. Le chiedevo però se a lato della fondazione di tutti questi servizi, a cui si aggiunge la pressoché generale gratuità dell’offerta, ci si è posti il problema della sostenibilità del lungo periodo. Penso alle Biblioteche che all’inizio degli anni ottanta iniziano a contrarsi lungo un processo che poi si centralizza fino alla conseguenza che conosciamo.
Questa è una domanda importante, e la risposta è molto pesante: noi abbiamo un livello di servizi che supporrebbe una percentuale di imposizione superiore del 20% a quella che abbiamo. Quando ero in Regione abbiamo lavorato molto su questo aspetto guardando anche i costi di altre città all’estero simili alle nostre. In una società in evoluzione sarebbe necessario spendere ancora di più, però prima bisogna prelevare, e da questo punto di vista si deve riconoscere che si è amministratori anche nel prelevare, non solo nello spendere. Parlando di Modena, Reggio, Bologna, Imola, i nostri livelli sono al di sopra dell’attuale livello del prelievo tributario.
Pierpaolo Ascari: Tornerei al passaggio dagli anni sessanta agli anni settanta. Lei ci ha detto che lo scorporo dello sport dall’Assessorato aveva un significato specificamente funzionale e non di elaborazione politica. È possibile però inquadrarlo alla luce di quanto accadeva a livello nazionale? “1968” significò un’iperproduzione di cultura e suppongo che gli enti locali possono aver sentito l’esigenza di governare o di orientare. Quando le spese per la cultura a partire dal 1970 non sono più facoltative non può essere anche quello un passaggio in cui la politica ha sentito l’esigenza di iniziare a farla, la cultura? Forse anche gli enti locali hanno sollecitato questa trasformazione? È stato un dibattito parlamentare?
No, il dibattito fu di ordine istituzionale e relativo all’eliminazione della distinzione fra spese produttive e spese obbligatorie. Non fu riferito a settori, al discorso culturale. Fra l’altro non c’è dubbio che quando vai a costruire dei canali culturali vieni anche coinvolto nella qualità dei contenuti che li percorrono. Se ad esempio parlo dell’ATER, parlo di quindici teatri comunali: quando decidi di scegliere un’opera invece di un’altra entri dentro al discorso culturale in termini di scelta, non in termini di quantità. Ricordo ancora che quelle dell’ATI venivano chiamate “spedizioni punitive”, si facevano d’estate, per ricevere i contributi dello stato. Accade anche oggi: finanziano i teatri in funzione delle opere che fanno, poi a Parma hai un Ministro molto specializzato nel fare le gallerie e allora il teatro di Parma ha tre volte il budget del teatro di Bologna. Sono cose che non dovrebbero accadere ma che accadono. C’era comunque la barriera delle spese facoltative e obbligatorie, e poi la formazione dello schema d’intervento sulla scuola negli anni sessanta si è già consolidata, non cresce ancora. Invece cresce la cultura, per i motivi che abbiamo detto.
Andrea Borsari: Anche io vorrei riflettere sulla coincidenza segnalata da Pierpaolo. Questa importanza così rilevante della cultura proprio negli anni settanta è strettamente collegata con il decentramento e con la crescita generalizzata delle forme di partecipazione alla vita politica, ma anche alla vita amministrativa. Le commissioni delle Biblioteche di Quartiere erano gli effettivi luoghi di crescita civile, in cui le persone organizzavano iniziative per un territorio ultracircoscritto Fra carta e territorio c’è un rapporto di 1:1. Non possiamo dimenticare che questo processo avviene come onda lunga non tanto del ’68 come movimento di stretta politicizzazione in sedi deputate, cioè università, scuole, fabbriche, ma come spinta della società italiana alla partecipazione, all’impegno civile e politico. A Modena in particolare, se non è stata pensata esplicitamente, direi che è stata ben trovata: attraverso questi strumenti, cioè, è stato dispiegato un meccanismo che ha imbrigliato (nel senso buono del termine) questa corrente facendola diventare un motore. I centomila alle spalle venivano da questa forma, non da una forma politica tradizionale, dal partito degli anni cinquanta organizzato nelle cellule, ma erano queste migliaia di genitori che una volta alla settimana andavano a discutere con la maestra come impostare la didattica all’asilo. Vorrei aggiungere inoltre che se anche non c’era una scelta di qualificazione culturale - ad esempio non mi pare che scegliere l’Avanguardia fosse nelle intenzioni - a vederlo dall’esterno, però, agli occhi di chi non fruiva di queste cose, sembrava che si fosse creata un’acqua alta in cui hanno potuto nuotare molto anche questo tipo di fenomeni. Questo tipo meccanismo metteva in moto anche energie. Andreotti organizzava il decentramento teatrale e i ragazzini come me andavano in giro per i teatri a Bologna a vedere le cose più strane, che venivano ad esempio dalla Danimarca. E’ stato un meccanismo che elevando il livello di diffusione ha anche dato modo alle forze che venivano dall’avanguardia o dal movimento culturale, che in quegli anni ha avuto la sua spinta e il suo input forte, di avere un pubblico, di entrarci in relazione, di poter condurre gli spettacoli.
Sì, è vera una coincidenza di questo genere, perché nel momento in cui tu costruisci possibilità di percorsi, ricerche, partecipazione, a quel punto non sei tu illuminato che entri in via Scudari e dici: “Adesso dobbiamo fare così”. No, hai costruito dei percorsi affinchè quelli che stanno dentro possano partecipare.
Lei risposerebbe questa visione generale secondo cui la cultura era concepita all’interno di un completamento della battaglia per la democrazia.
Assolutamente.
Ivano Gorzanelli: Era quello che era l’urbanistica di formazione di Campos Venuti, contro un’idea latifondista.
Campos ha svolto sull’urbanistica il ruolo di gruppo di forze speciali, il gruppo Delta. Era un paracadutista. Ci trattava da ignoranti e ci diceva: “Si fa così”. Nel merito, forse, abbiamo avuto un contributo maggiore da parte di Osvaldo Piacentini, un architetto di Reggio, un cattolico che ci diceva: “Ma perché non andate a iscrivervi al consiglio pastorale così diventate maggioranza?”. Sposò una ragazza che per cinque anni fu la mia schiena al liceo a Reggio. Ebbero sette figli. Piacentini era più legato alle problematiche dell’uso del territorio agricolo, era un urbanista terragno, e quello ci servì di più. Come rottura fu decisivo.
Andrea Borsari: L’idea è che la soluzione sia comunque in una società civile fortemente intramata da una struttura partecipativa, un’idea adesso fuori moda ma probabilmente da riprendere seriamente, nelle forme adeguate. Varie domande hanno tentato di capire se nel corso di queste procedure per arrivare a determinare le grandi scelte di politiche culturali c’erano momenti di contrasto e come erano risolti. A memoria sua c’è un momento di difficoltà di qualche genere nel tradurre queste politiche, c’è qualcuno che si oppone, qualcuno che dice: “No, i soldi li diamo agli anziani, non alle biblioteche”, qualcuno che fa pesare concezioni di altro tipo, e se sì, come vengono risolti questi problemi? Con discussioni in sede politica, con l’autorevolezza della Giunta?
Di regola erano cose che nascevano e si concludevano al nostro interno perché non erano cambiamenti di linea, ma al limite erano il peso finanziario di una cosa rispetto a un’altra. Ricordo che avemmo qualche discussione perché all’epoca di Magni ci fu un periodo in cui gli accordi si sfocavano dal punto di vista non di linea, ma dell’efficienza organizzativa. Liti non ce ne sono mai state, le uniche erano relative a porre un limite a Famigli per via del suo spirito missionario. Quando io andai via lui diventò Assessore all’Igiene e a quel punto era dappertutto.
Fausto Ferri: Fra le cose che si facevano emergevano anche delle specie di sogni, ricordo che quando fu preso in considerazione il centro storico una delle prime cose che si fece fu una campagna fotografica di Monti. Ricordo quel mese, con le strade che si svuotavano e dietro c’erano già le macchine pronte. Seguire questa cosa in città credo che sia una cosa che non scorderò mai, perché nessuno dopo quel momento l’ha più vista e chissà mai se la rivedrà. Secondo me intanto era un’operazione culturale di alto livello perché vivevi il centro storico in un modo unico. Nasceva da un’esigenza (eravamo nel 1974): dobbiamo fotografare il centro storico per avere lo sviluppo e le tipologie abitative. C’era un carro attrezzi davanti che portava via le macchine e un vigile dietro che fermava quelle che arrivavano. Il traffico del centro era un delirio all’epoca.
Ci sono fatti che assumono non un significato, ma una loro rilevanza a seconda che vengano visti oggi o ieri. Si disse: partiamo dal centro storico. E si iniziò con la mappatura fotografica del centro. Tu fosti colpito per la realtà di allora, in cui le macchine si infilavano dappertutto. Devo dire per inciso che il blocco che si fa in centro a Modena non si fa da nessun’altra parte in Emilia Romagna. L’obiettivo finale era intervenire in S. Paolo nell’area della caserma di S. Chiara. In effetti assume un altro significato che non voglio sminuire, ma per noi era una linea del programma.
Pierpaolo Ascari: Se non sbaglio, rispetto all’urbanistica lei ha detto che a un certo punto sono diventati importanti i modelli della Svezia. C’erano modelli anche dal punto di vista della politica culturale, di altre città?
No, no perché la cultura si esporta non attraverso gli standard, ma è un processo di influenza nelle arti, il cinema, la filosofia.
E persone influenti? Qualcuno molto ascoltato, che veniva da fuori? O il fermento nasceva intorno ai funzionari, ai giovani che entravano, a Oscar Goldoni?
Le strutture facilitavano le cose e funzionavano anche come canali. La struttura è canale. Poi quando veniva Paolo Rossi... La cultura non si spezza. Ho letto un articolo sulla morte di Rotondò, un amico, che ci dava una mano al circolo Formiggini, uno specialista.
Andrea Borsari: Biondi mi raccontava che proprio in quel periodo, fra gli anni sessanta e gli anni settanta, lui e Rotondò cercarono di far nascere una Facoltà di Lettere a Modena. Rotondò insegnava alle scuole superiori e se ne andò perché non c’era l’università a Modena. Questa discussione era arrivata in sede politica? Il discorso era sempre la questione della città produttivista: “No, ci dev’essere un rapporto fra mercato del lavoro e università. Lettere non serve allo sviluppo economico del territorio: perchè dobbiamo farla?”. A un certo punto questo discorso è diventato egemonia e ha bloccato, nella sfera politica?
Quando tu fai una scelta è evidente che non scegli il resto. Dipende se non lo scegli consapevolmente o inconsapevolmente, o se ti è stato proposto. Sul tavolo non abbiamo mai avuto il problema della Facoltà di Lettere. Ma che privilegiare Economia e Commercio significasse sottolineare l’”angolatura produttivistica” di Modena è vero, è nelle cose. Va anche detto che l’istituzione di questa Facoltà è stata un’acrobazia tattico-politico-giuridica. Ma all’inizio Economia e Commercio si è caratterizzata soprattutto in termini teorici. Addirittura si parlava di una “scuola di Modena”: Salvati, Brusco, Vianello eccetera. Ricordo che abbiamo avuto scontri, perchè volevo portare Prodi, ma loro dicevano che non era omogeneo, perchè erano degli estremisti. Il rapporto doveva essere costruito in una maniera diversa. Dava fastidio il concetto della torre d’avorio e noi sotto che facevamo i guardiani, i pretoriani. Il rapporto con la città doveva essere diverso.